Diversificazione qualitativa del servizio Universitario

Diversificazione qualitativa del servizio Universitario

Autonomia differenziata, parametri di distribuzione dei meriti e competenze dell’Anvur

È in discussione la proposta, avanzata dal MIUR, di consentire una diversificazione del regime giuridico agli Atenei che conseguano stabilità e sostenibilità di bilancio e risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca. La modulazione dei parametri di distribuzione delle premialità desta preoccupazione e sembra meritare un parziale ripensamento.

 

Nella prospettiva di dar seguito all’impegno di diversificazione delle autonomie universitarie assunto con la l. n. 240 del 2010, è in fase di composizione il decreto ministeriale (divulgato in bozza non ufficiale e non definitiva) di revisione dei sistemidi gestione e di erogazione dei finanziamenti. L’idea è quella di garantire agli Atenei, che abbiano conseguito «stabilità e sostenibilità del bilancio» e «risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca», la facoltà di «sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi» (art. 1, comma 2, l. n. 240 del 2010).
Le Università reputate ‘virtuose’ in relazione ai parametri indicati sarebbero ammesse a proporre al Ministero la stipula di accordi di programma per una differenziata regolazione, tra l’altro e per semplificare, in punto di composizione degli organi di governo, istituzione di corsi di laurea e accreditamento di corsi di dottorato. In un circolo virtuoso che dalla conseguenti maggiori possibilità di migliorare il servizio offerto porta al più agevole accesso a fonti di finanziamento e, dunque, a ulteriore potenziale profitto qualitativo.
Detto altrimenti, i meriti di produttività in ricerca e didattica dovrebbero procurare il diritto di negoziare la liberazione dalle strettoie del regime vincolistico che imbriglia, a più livelli, il funzionamento interno degli Atenei.
Nella sua versione provvisoria, il decreto alimenta da subito i timori per l’appesantimento del divario (già in essere), in termini di andamento e rendimento, tra Università delle aree settentrionali e Università delle zone più depresse del meridione. Diffusi anche i dubbi di legittimità costituzionale del provvedimento per violazione  della riserva di legge ex art. 33, comma 6, c.c., disposizione pure soggetta a letture interpretative differenti.
Ogni riflessione sulla bontà dell’iniziativa si colloca nel solco del dibattito, avviato all’epoca della riforma del Titolo V della Costituzione, sul difficile inquadramento dell’istruzione universitaria tra le materie a competenza esclusiva, statale o regionale, o a competenza concorrente (rectius, sulla relazione complicata tra autonomie) e sui problemi connessi al decentramento amministrativo. A prima approssimazione, insomma, ridurre la valutazione alla proiezione futura di un servizio universitario a  doppia velocità, che seziona, una volta di più, l’Italia in senso orizzontale, indurrebbe nell’errore di una controproducente banalizzazione.
Se la diversificazione qualitativa delle offerte di mercato è in sé strumento utile a meglio servire la varietà degli interessi degli utenti, la differenziazione del regime giuridico e del piano di riparto dei finanziamenti potrebbe rivelarsi addirittura necessaria a fronte della particolare natura del servizio proposto dalle Università e del variabile contesto economico e culturale nel quale sono chiamate a operare. La parità di autonomia riconosciuta dalla Carta costituzionale, all’art. 33, non può servire a giustificare l’appiattimento di situazioni diverse su una soluzione comune; il principio di eguaglianza, per non farsi egualitarismo, impone di dare risposte adeguate e congrue alle esigenze volta per volta da soddisfare.
Di più, le attese di premialità possono fungere da incentivo alla virtù, a tutto vantaggio dell’efficienza e della responsabilizzazione del sistema. Per quanto, voltando la medaglia nel suo rovescio, è fondato il rischio di una ulteriore burocratizzazione del sistema di gestione universitaria, che, contro ogni logica e utilità di semplificazione, distrae dalle prioritarie attività di didattica e ricerca all’affannosa ricerca di approvazione, del riconoscimento del merito e, tant’è, di finanziamenti. Il percorso in questa direzione è già stato intrapreso da tempo.
Il punto, però, è che, affinché la diversificazione non si risolva in arbitraria discriminazione, la distribuzione dei meriti deve essere calibrata su parametri ispirati a equità.
Quanto oggi profilato nella bozza di d.m. meriterebbe di essere ripensato alla luce di uno studio della varietà del piano culturale ed economico delle aree nazionali, che si esprime, in concreto, nella gestione familiare, nelle scelte di studio e nella propensione alla mobilità degli studenti. De lege ferenda, occorrerebbe invertire l’ordine di causalità tra i fattori e muovere (non dagli indici di produttività degli Atenei, ma) dalle comuni ragioni di freno all’implementazione del servizio, variabili per circostanze anche ambientali.
È lungo questa direttrice che può spiegare utilità un’autonomia negoziata, modellata sulle concrete esigenze dell’Ateneo in relazione allo scopo istituzionale.
Le premialità, per altro verso, non possono essere assegnate sulla base di fattori che sfuggono al controllo dell’ente e che prescindono dalla qualità del servizio offerto. Da ridimensionare dovrebbe essere il peso affidato alla capacità attrattiva dei singoli Atenei ai fini della determinazione del livello dei risultati nel campo della didattica (più spesso connessa a tradizione, collocazione topografica, disponibilità di risorse da investire nel marketing, andamento del mercato del lavoro locale, etc.). Per le medesime ragioni, gravemente e irragionevolmente discriminatoria è anche la distribuzione dei premi in ragione del tasso di occupazione dei laureati (triennali e magistrali) a dodici mesi dalla laurea.
Quanto alla valutazione dei risultati raggiunti nella ricerca, meriterebbe separata considerazione il problema della legittimità dei poteri affidati all’Anvur, della effettiva idoneità del mezzo al fine e degli effetti grotteschi già fin qui generati sul sistema del reclutamento universitario e del funzionamento degli organismi interni.

 

[A.F.]



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