UN ‘PATENTINO’ PER GLI AMMINISTRATORI

UN ‘PATENTINO’ PER GLI AMMINISTRATORI

Perché l’analfabetismo istituzionale alimenta la tecnocrazia

La c.d. ‘seconda Repubblica’, nata sotto l’insegna del rinnovamento della classe politica, ha messo in luce a distanza di poco più di un ventennio una generalizzata incapacità da parte delle istituzioni di far fronte alle istanze della collettività. La stessa ‘terza Repubblica’ è una diretta conseguenza di un diffuso malcontento dei cittadini. Quali le cause e, soprattutto, i possibili rimedi?

Chi ha vissuto la stagione di ‘mani pulite’ ricorderà come la quasi totalità degli italiani era fortemente convinta che sarebbe bastato cambiare la classe politica e, con essa, il sistema elettorale di accesso alle cariche elettive per avere una amministrazione pubblica più sana e efficiente.

Non a caso in poco più di due anni assistemmo alla demolizione dei partiti tradizionali, alla sostituzione in blocco dell’intera classe politica italiana, non solo a livello nazionale, e alla introduzione di sistemi elettorali che spingevano verso la semplificazione politica, in grado di esaltare maggiormente il singolo candidato e i leader piuttosto che il progetto di cui gli stessi erano espressione (si pensi ai collegi uninominali per l’elezione del Parlamento e dei consigli provinciali; all’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni, delle Provincie e dei Sindaci; alla introduzione della preferenza unica per l’elezione dei Consigli Regionali e Comunali).

Ma negli gli anni novanta abbiamo assistito anche ad una profonda riforma della pubblica amministrazione che ha modificato completamente non solo il rapporto tra amministratori ed amministrati (si pensi, ad esempio, alla introduzione della legge n. 241 del 1990, attuativa dei principi costituzionali di imparzialità, trasparenza ed efficacia dell’azione amministrativa) ma anche quello tra dipendenti e vertici politici, mediante l’introduzione di una netta distinzione delle funzioni gestionali, di competenza esclusiva dei primi, da quelle di indirizzo e controllo, rimaste in capo ai secondi.

Orbene, il mutato quadro socio-istituzionale si è rilevato ben presto una vera e propria miscela esplosiva in quanto la concreta attuazione dell’indirizzo politico, non potendo prescindere da una costante interlocuzione tra la dirigenza e l’organo ‘politico’, richiedeva (e richiede) a quest’ultimo un adeguato know-how in grado di consentirgli l’effettivo controllo sullo stato di attuazione del programma di governo.

Tuttavia la repentina sostituzione di una intera classe politica ha fatto sì che al vertice delle istituzioni di ogni livello giungessero persone che, seppur culturalmente e professionalmente valide, fossero comunque prive di quella formazione politico-istituzionale necessaria ed adeguata al ruolo rivestito.

A ciò aggiungasi che tutta la classe politica nata nella ‘seconda Repubblica’ non ha avuto neppure la possibilità di acquisire col tempo una adeguata formazione politico-istituzionali a causa della scomparsa dei partiti tradizionali e della loro sostituzione con nuove aggregazioni più snelle nelle quali la formazione politica (che costituiva un caposaldo del modello organizzativo dei partiti) è divenuta pressoché inesistente.

L’assenza di un’adeguata formazione da parte degli ‘eletti’ ha il più delle volte consentito alla c.d. burocrazia, ossia ai vertici dirigenziali delle pubbliche amministrazioni, di appropriarsi anche della funzione di indirizzo politico e di agire senza un effettivo controllo da parte dell’organo di vertice, di matrice elettiva.

Tale fenomeno patologico del sistema democratico italiano dell’ultimo ventennio è stato facilitato anche dalla circostanza che l’organo politico nell’attuale assetto normativo non può, salvo rare eccezioni, ricorrere allo spoil system.

La frattura tra la responsabilità politica e l’effettiva capacità di guida della pubblica amministrazione (che in un sistema compiuto dovrebbero camminare di pari passo) è dimostrata dai molti casi di corruzione registratisi nella ‘seconda Repubblica’, laddove i vertici politici sono stati spesso costretti a dimettersi a causa non già di un loro coinvolgimento diretto nel fatto delittuoso ma perché ritenuti politicamente responsabili di un mancato controllo rispetto ad azioni poste in essere dai dirigenti dell’amministrazione.

Appare evidente, allora, che difficilmente potrà giungersi ad un efficientamento della pubblica amministrazione in assenza di interventi normativi tesi ad istituzionalizzare quella formazione politica che per lungo tempo è stata garantita dai partiti tradizionali.

Pretendere, infatti, che chi intenda candidarsi alla guida di una pubblica amministrazione abbia ricevuto quanto meno una formazione di base necessaria per lo svolgimento di tale ruolo è una richiesta di buon senso che non contrasta affatto con il principio di rappresentanza democratica delle istituzioni sancito dalla nostra Costituzione.

In altri termini non è certo una eresia affermare che, così come l’automobilista debba avere una patente che certifichi la sua conoscenza dei segnali stradali e delle regole che disciplinano la circolazione, anche il Sindaco e il Presidente di una Regione dovrebbero aver conseguito una certa formazione nello specifico settore.

D’altra parte già agli inizi del ‘900 il legislatore era ben consapevole della necessità di affidare l’amministrazione pubblica a persone ‘formate’ tanto che nel disciplinare l’elezione dei consigli comunali aveva introdotto tra le condizioni di eleggibilità, in un contesto in cui l’analfabetismo si aggirava intorno al 46% della popolazione, il saper ‘leggere e scrivere’ (art. 26, r.d. n. 148 del 1915).

Peraltro, l’introduzione di meccanismi di formazione obbligatoria (e gratuita), quale condizione per l’accesso ad alcune cariche elettive, non solo non troverebbe alcun ostacolo nella Costituzione ma, al contrario, darebbe concreta attuazione ai principi di buona amministrazione sanciti dall’art. 97.

Infatti, fatta eccezione per l’elezione dei membri del Parlamento e del Presidente della Repubblica (in relazione ai quali la Costituzione individua direttamente le condizioni di eleggibilità), l’art. 51 della nostra Carta demanda alla legge il compito di individuare i requisiti di ammissione alle cariche elettive, con l’unico limite di introdurre condizioni di eguaglianza (da cui deriva la necessità che la formazione sia gratuita).

L’istituzionalizzazione di corsi di formazione politica, inoltre, sarebbe una misura con un ridotto impatto economico sullo Stato potendo gli stessi essere affidati ai segretari comunali o agli Uffici Territoriali del Governo le cui funzioni, negli ultimi anni, sono state sempre più ridimensionate.

In definitiva il ‘patentino’ dell’amministratore, pur nella consapevolezza che da solo non è certo sufficiente ad assicurare una migliore gestione della res publica, sarebbe comunque uno strumento di ausilio (e non un ostacolo) per tutti coloro che aspirino a ricoprire cariche elettive.

Di GIACOMO PAPA

 

[Immagine da Pixabay.com]


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