Il mondo senza abbrivio

Il mondo senza abbrivio

Leggevo qualche giorno fa un articolo sulla Stampa nazionale.
In incipit, in grassetto, importanti novità per i proprietari colpiti da occupazioni abusive. Inevitabile immaginare una buona novella sulla definitiva estirpazione di una piaga tanto diffusa quanto insopportabile e altresì inspiegabile – di un ordinamento civile che resta immobile di fronte alla prepotente privazione di un diritto costituzionale limitabile solo a garanzia di una superiore funzione sociale, inesistente e anzi dotata di forza contraria in una pratica di tale lapalissiana e anche pericolosa ingiustizia.

Non nascondo un podi sconforto nell’addentrarmi nella notizia.

La Corte di Cassazione, con sentenza di questo mese, ha stabilito che l’esenzione Imu per immobili illegittimamente occupati ha valore retroattivo. Una interpretazione giurisprudenziale fondata su una definita storica sentenza della Corte Costituzionale del 2024 che ha cancellato per incostituzionalità la previsione di un decreto legislativo del 2011 che imponeva il pagamento dell’Imu anche in caso di mancata disponibilità dell’immobile dovuta ad un’occupazione abusiva.
Gioite, cittadini, e magari il povero malcapitato nella disgrazia che deve deglutire quotidianamente mentre ha terrore di avvicinarsi a casa sua gioisce davvero per essersi risparmiato almeno la beffa. Non ha tempo né più energie per accorgersi che la magistratura si sia sovrapposta allo Stato a colmare vuoti di stasi politica imbarazzante. Prende il vantaggio contingente, pregherà Dio sull’effetto domino di questo correttivo a matrice giurisprudenziale che mette a posto le coscienze di chi governa mentre si manifesta una nuova contorsione giuridica che stabilizza di fatto la condizione di occupato, indennizzata a mo’ di esproprio con l’affrancazione dal tributo.

E si aggiunge una nuova dicotomia alla disperazione per l’insostenibilità della vita in questi tempi finali in cui un cittadino può essere, come in questo caso, un buon perdente o un furbo vincente, credente o ateo, operaio o docente universitario, ricco o povero, sposato o separato, eterosessuale o omosessuale, carnivoro o vegano, di sinistra o di destra, politicamente corretto o identitario sovranista.

Tempo ed energie a catalogarci e scontrarci all’interno del medesimo contenitore, co-status cristallizzati nei talk show della propaganda politica a caccia di consensi, i pochi che servono in un sistema di liste bloccate, mentre si disinveste sulla radice delle questioni, su quanto la necessaria rivoluzione democratica debba essere connotata da una reale conversione personale di ciascuno.

Si attribuisce ad Einstein la nota regola per cui non puoi risolvere il problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo. Una regola densa di significato, ma il cittadino sembra aver perduto gli strumenti per comprenderne il significato e quel che è peggio per riuscire a metterla in pratica.

Manca il motore propulsore, il punto di vista capace di spaziare e di portare l’abbrivio delle azioni e dei risultati differenti. Può sembrare così complicato da metterci in attesa del Deus ex machina che venga a toglierci le castagne dal fuoco. Noi che ci sentiamo buoni a massificare i beni senza vedere la crudeltà che si cela dietro questo svuotamento di risorse umane e planetarie. Noi che mitizziamo chi può permettersi il lusso di un pranzo a un ristorante stellato e non conosciamo il volto di chi invece mangia tutti i giorni pane e catrame per costruire il benessere condiviso. Noi che crediamo di poter vivere avulsi dai processi storici, che ingoiamo l’epoca del riarmo come ineluttabile grimaldello economico, riuscendo a sedare perfino l’orrore.
Ma il prezzo di questo ignorare è una impotenza che abdica all’impegno e alla responsabilità personale e delega fiducia a chi di fatto non paga il conto di questa assenza, le cui conseguenze ci restano a carico come cartine di tornasole.

La storia può guidarci.

Aldo Moro lo ha detto con tre parole semplici e rivoluzionarie: il fine è l’uomo.
Sembra incredibile che oggi lo ricordiamo solo per i cinquantacinque giorni della sua prigionia, che sappiamo che è meglio non mettersi contro le brigate rosse e non siamo stati capaci di accogliere una eredità che non è poesia ma soluzione pratica, che non è ideologia ma intercettazione dei valori.

Io resto ammaliato da un’intervista del 2024 a Giuseppe De Mita, che ripercorre l’attualità del pensiero di Moro, che sintetizza quanto ciascuno debba essere protagonista e parte di quella che Moro chiama la nuova coscienza collettiva, in cui il cittadino è chiamato per primo non a discutere dei massimi sistemi, ma a non tollerare ingiustizie e condizioni di insufficiente divisa, a pretendere che il diritto di altri, anche dei più lontani, sia da tutelare non meno del proprio.

Nel discorso in assemblea costituente del 1947, Moro spiega come sotto la spinta delle istanze di giustizia la ragione di Stato e la ragione della Forza debbano cedere alla fine ad una logica incontenibile, quella della fraternità dei popoli.

E attenzione, non stiamo nella retorica, ma nella pancia della più gigante onda democratica che possa sprigionarsi. Così rivoluzionaria da siglare la condanna a morte di uno dei pochi veri politici italiani, che intuì l’esigenza imprescindibile del volto umano delle Istituzioni, quel volto umano che in una inusitata capacità di elaborazione politica lo porta ad aprire la interlocuzione con il Partito Comunista, intravedendo in fondo la sussistenza di una competizione tra due umanesimi, in uno sforzo di ricerca di un punto di equilibrio più avanzato, ove la diversità di vedute sullo stesso principio cardine può divenire elemento di ricchezza e di equilibrio nel contesto economico e sociale. Un contesto in cui la politica impallidiva ancora di fronte alla distanza delle persone dalla vita democratica, dalla perdita della partecipazione, dall’astensionismo. L’Istituzione era e si sentiva responsabile di non essere percepita come lo strumento che si preoccupa e agisce per rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione della dignità della persona umana.

Ma nell’assenza di cui sopra non è difficile elaborare correttivi. E giù Mattarellum, Porcellum, Rosatellum, provvedimenti sempre più indecifrabili, per distogliere lo sguardo da una politica che non cerca più il suo popolo, ma si garantisce i posti in liste elettorali bloccate, rivendicando una sostanziale indipendenza nell’esercizio del potere. Il cuore pulsante è spento, il mondo avanza senza abbrivio, riduciamo il numero dei parlamentari e diamo meno soldi ai ladroni, giustizia è fatta, non paghi l’Imu e con i soldi che ti danno indietro porterai la famiglia in vacanza anche quest’anno.

Il problema è l’altro. L‘altro che sbaglia. L’altro che non la pensa come noi.

Sartre diceva l’enfer, c’est les autre, l’inferno sono gli altri, a testimonianza che i cattivi maestri hanno cominciato già nel secolo scorso a distillare la paura dell’altro, la paura di stare e di essere protagonisti della società.
In assenza di fondamenti solidi, è dilagato un nihilismo depressivo che produce politica senza speranza, dove la partecipazione è sostituita da caricaturali comunicazioni social, che spesso sono solo sfogatoi.

E allora capiamo che grande via abbiamo l’opportunità di percorrere in Meritocrazia, dove, difendendo il volto umano della politica, stiamo scoprendo non solo l’importanza ma la bellezza di mangiare insieme pane e catrame, di rinunciare a quell’aperitivo per portare alta distanza, per sentirci contraltare pronto, capace di decodificare anche per chi non ha tempo, per chi non ci crede, per chi ha creduto all’ennesimo inganno epocale.

Impariamo bene nel percorso quanto conti e quanto pesi, ben prima dell’assetto economico, giuridico e politico, la condizione umana nelle sue declinazioni e quanto sia prioritario e indispensabile lavorare sulla conversione personale che da ego, assoggettato a piaceri effimeri, si eleva a parte di un unicum di pluralismo e libertà vera, che ci rende capaci di attivare una rivoluzione democratica, umile e garbata, ma che non abbassa la guardia e non ci sta ad abbassare la testa.

Crediamoci, perché ogni intuizione di valore ha storicamente trovato resistenze, difficoltà e fatiche, ma non esistono scorciatoie né alibi, e la storia lascia sempre integro ciò che conta davvero.

Arriviamo al settimo Congresso nazionale, al nostro appuntamento con le Istituzioni e con la società civile con l’orgoglio e la responsabilità di essere forza propulsiva che risveglia l’azione di tutti, cittadini, politica, istituzioni, da un torpore divenuto insopportabile e insostenibile.



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