Il sale

Il sale

Narra una antica favola ripresa da Italo Calvino che un re, conosciuto come Enrico il Saggio, dovendo designare una delle sue tre figlie per la successione al trono, le fece convocare e domandò loro: “Mie care figlie, come mi amate?”. La più grande rispose: “Padre, io ti amo come un diamante, la pietra più preziosa”. Soddisfatto, il re la fece sedere alla sua destra, poi chiamò la seconda figlia: “Padre, io ti amo come l’oro. Sei tu la mia ricchezza!”. Lusingato e cullato da questo filiale elogio, il re la fece sedere alla sua sinistra. Poi chiamò la terza figlia domandandole teneramente come fosse amato. La ragazza lo guardò fisso negli occhi e rispose senza esitare: “Padre, io ti amo come il sale da cucina!”.
La collera del re tuonò terribile e fu esiliata e diseredata. La povera piangendo tutte le sue lacrime, lasciò il castello e trovò un posto nelle cucine del re vicino, dove in breve tempo, grazie alle sue capacità e alla sua dedizione, divenne capocuoca. Un giorno arrivò al palazzo il re Enrico. La figlia riconobbe subito suo padre e preparò un banchetto sontuoso, assicurandosi che tutti i piatti fossero privi di sale. Il re, irritato dalla mancanza di sapore del cibo, dichiarò che senza sale la vita non ha sapore e che preferirebbe non vivere che mangiare senza. A quel punto la figlia si rivelò e poté finalmente spiegare che, come la vita senza sale non ha gusto, così l’amore senza la saggezza non ha valore, così un bene prezioso senza cultura può finire nel disprezzo. Il re comprese e, pentito, la riaccolse a corte.

Una favola semplice apparentemente, ma che apre una riflessione su cosa sia davvero la ricchezza e sulla nostra capacità di intendere l’importanza dell’essenziale, senza il quale è dietro l’angolo il pericolo di scambiare autenticità e illusione e di dare per scontato quello che è davvero il sale di ogni esistenza e comunità.
Albert Tévoédjiré, lo scrittore beninese, figura chiave del processo di transizione democratica del suo difficilissimo Paese, pubblica nel 1978 il libro La povertà ricchezza dei popoli con un messaggio forte e chiaro. Ripensare la ricchezza dei popoli non semplicemente nella prospettiva dell’economia dominante, ma in quella multiforme della vitalità e creatività delle culture, dei saperi, degli adattamenti ad ambienti diversi, delle tradizioni vive e dinamiche, della trasmissione delle conoscenze, delle capacità e delle pratiche proprie ad ogni comunità o popolo, dei gesti quotidiani, delle feste e delle celebrazioni, delle espressioni del pensiero, dei simboli, dei linguaggi, delle arti e degli artigianati, dei giochi, delle percezioni e rappresentazioni del mondo naturale e sociale, della diversità, complessità, dignità, umanità e profondità di ogni gruppo umano.

Le parole di questo autore suonano forse come un ossimoro, ma toccano l’ossatura di una sfida fondamentale dalla quale non possiamo più esimerci. Riprenderci la cultura che ci rende capaci di distinguere con intelligenza tra povertà e miseria, riflettere sulla storia, superare l’attuale imperativo categorico del “fatti ricco, guadagna e consuma”, resistere ai miraggi dell’industrializzazione massiccia come unica fonte di ricchezza, superare l’economia competitiva del mercato e del Prodotto Interno Lordo, che ha ben poco a che fare con l’uomo, il suo benessere, la salute e l’ambiente.
Forse la cultura “non si mangia” e di cultura non si vive come recita la schiera dei cantori sempre più numerosi dell’infelice mantra, ma come disse ilo genio di Gabriel Garcia Marquez in ‘Nessino scrive al colonnello’: ‘Non si mangia, ma alimenta’.

Così come nella metafora del sale, di una figlia costretta a lottare per portare in luce qualcosa che è già insito e storicamente parte e fondamento imprescindibile del tessuto sociale fino a definirsi ovvio, questa epoca ci costringe a dover sottolineare una cosa che – soprattutto in un Paese come il nostro – dovrebbe essere un fondamento, un dato di fatto, un punto di partenza e non un punto di arrivo verso il quale, suggerire di metterci – faticosamente – in viaggio.

L’essenziale non può essere una conquista. Non deve. Non deve essere una lotta impari, ma una premessa di progresso. Oggi è dolorosamente una premessa di stasi, di discriminazione di divario incolmabile. La domanda, allora, è: come mai si arriva a questo punto?
Perché abbiamo commesso l’errore più grave che potevamo commettere: considerare libertà e democrazia conquiste irreversibili e ormai scontate.
Non è così. Nulla, infatti, è più difficile da conquistare e, allo stesso tempo, più facile da perdere di democrazia e libertà.
Niente è più bello; niente è più fragile se non si orienta la natura umana verso la dimensione collettiva.

“Nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!”, scrive Dostoevskij ne “La leggenda del Grande Inquisitore”. E aggiunge: “Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura”.
Guardiamoci intorno: la realtà che ci circonda – da Sud a Nord, da Oriente a Occidente – lo testimonia con inquietante evidenza quotidiana.
“Stiamo assistendo al rifiuto su scala mondiale della democrazia liberale e alla sua sostituzione con una qualche forma di autoritarismo populista” sono le parole di Arjun Appadurai, uno tra i più importanti antropologi viventi. Lui e altri quattordici tra i più grandi intellettuali del Pianeta, hanno cercato di spiegare la crisi del tempo che viviamo, in un saggio che ha un titolo che la dice lunga sul nostro presente: “La grande regressione”.
Ci si illude dietro luccichii apparenti e la Storia ci presenta il conto. E – come vediamo da tutto quello che accade intorno a noi – è un conto salatissimo.

Il compito che ha assunto su di sé Meritocrazia Italia è proprio come la favola del sale, allo stesso tempo, semplicissimo e difficilissimo. Semplicissimo, perché può essere felicemente sintetizzato in un chiasmo rivelatore: “Cultura è Politica. Politica è Cultura” laddove per cultura di un popolo si intende l’essenza della dignità dell’uomo senza enfasi, teorie o dogmi coltivando l’essere, non l’avere. Interrompendo il ciclo dell’inutile, il vanto, il clamore che fa notizia.
Difficile, perché tutto dipende dai contenuti che diamo a queste due parole. E i contenuti, quelli veri oggi sono difficili da intercettare. Da riportare in luce in un groviglio in cui l’attenzione è rivolta ai social media e alla comunicazione superficiale, l’economia si sovrappone ai diritti fondamentali.
Ma la cultura deve nutrire la politica e la politica, a sua volta, alimentare la cultura. Non c’è altra via. “Il sale è una cosa buona – recita il Vangelo di Marco – ma, se il sale diventa insipido, con che cosa gli ridarete sapore?”
E non abbiamo alibi. Non esiste contrapposizione tra “società civile” e “politica incivile”.
È una contrapposizione falsa e strumentale che ci esonera dalla responsabilità di dare il giusto peso alle cose, di sostenere ciò che vale, di saper allontanare ciò che non è essenziale. Ogni albero dà i suoi frutti. Alberi buoni danno frutti buoni; alberi cattivi, frutti cattivi. Non esiste terza via. La via è una: uscire dalla gabbia delle nostre apparenti comfort zone.

L’albero della politica è l’uomo e la cultura di cui riesce a farsi portatore. Se egli è civile, la politica sarà civile; se, invece, è incivile, la politica sarà incivile quanto lui. Per il luccichio dell’oro e dei diamanti la figlia migliore del Re si è trovata esiliata. Se ci pensiamo su ogni giorno ingoiamo sulla nostra pelle un boccone amaro pari a questo. Concorsi truccati, appalti truccati, posti di lavoro occupati fuori dai meriti. Leggi approvate ad personam. Competizioni elettorali già decise a tavolino.
Sette anni di Meritocrazia insegnano quanto la strada sia impervia ma anche quanta strada si possa percorrere risvegliando ogni coscienza, restituendo la consapevolezza di essere proprio noi i custodi un patrimonio grandissimo di cui dobbiamo prenderci cura senza deleghe.
Acquistano così un senso imprescindibile le parole dell’evangelista Marco – quando scrive: “Abbiate sale in voi stessi”.

Il sale della politica o è in noi o non c’è. Ed è in questa consapevolezza e in questa forza di credere che arde la mission di Meritocrazia.



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