Realizzare il proprio io, ma nella bellezza del Noi

Realizzare il proprio io, ma nella bellezza del Noi

Ci sono molti genitori che cercano di porre rimedio alla insoddisfazione per il proprio personale percorso di vita cercando riscatto in quello dei figli. Ai figli chiedono titoli di studio altisonanti, eccellenza negli sport. Impongono traguardi da raggiungere al solo scopo di potersi vantare del risultato, educando all’individualismo. Senza tener conto delle reali aspirazioni, dei sogni e dei desideri di giovani costretti a essere irrimediabilmente infelici, in una competizione costante, con l’altro, da superare, e con se stessi. Per essere sempre migliori.

Questa constatazione mi riporta al diverso approccio del popolo azteco. Soprattutto le nuove generazioni tendevano a mettersi poco in evidenza. Piuttosto sentivano di doversi dare al servizio della comunità, consapevoli che non esaltare il proprio io cercando attenzioni speciali non volesse dire essere inferiori, ma essere capaci di costruire qualcosa insieme all’altro.
Nell’umiltà c’è la qualità dello stare insieme, l’opportunità di creare competenze attingendo dalle conoscenze e dalle abilità altrui.
La medietà, o la mediocrità, per usare un termine al quale oggi diamo un’accezione negativa, era addirittura una ambizione da Socrate a Aristotele. Triste era considerata la posizione di chi rincorre sempre e solo il successo.

L’ansia del risultato, l’ambizione malsana di essere sempre primi logorano, e alla fine rendono fragili. E, anche quando l’obiettivo è raggiunto, si sente il bisogno di conservare quel primato, giorno dopo giorno.
Una società costruita proprio sulla spasmodica ricerca dell’eccellenza e della evidenza non può che essere una società debole.
I veri valori, dell’altruismo, della solidarietà, passano in secondo piano rispetto all’individualismo, neppure proiettato alla realizzazione dei sogni più sinceri.
La sostanza della costruzione stabile della felicità condivisa perde dinanzi alla forma dell’apparenza.
Un benessere di facciata.

Quando i colonizzatori spagnoli si trovarono di fronte al popolo azteco lo giudicarono a primo approccio male organizzato, ma scoprirono presto invece l’efficienza delle loro infrastrutture e il rigore della loro struttura sociale, perfettamente architettata, con un sistema militare e di riscossione dei tributi ottimamente performante. Una civiltà in nulla inferiore alle altre.

Saper gestire il sociale vuol dire saper procurare benessere a tutto il gruppo. Su questo si regge l’equità sociale tanto desiderata.
Si ha comunità quando i singoli sono disposti a tenersi per mano e a rispettare le regole di relazione. Senza protagonismi esasperati. Senza desiderio di primazia intellettuale. Senza prepotenza nella conquista del palco.

Questa è la società che vuole Meritocrazia. Ed è per questo tipo di società che non condivide con tanti altri la voglia di competizione elettorale.
Merito non è trionfo dei migliori. È conquista di pari opportunità.
Meritocrazia è fatta di persone comune, orgogliose di essere tali. Che non hanno paura di perdere, perché l’obiettivo non è trionfare in una competizione con l’altro. Combattiamo soltanto allo scopo di dare voce a tutti, di consentire a tutti di esprimersi, di realizzare il proprio io nella bellezza del noi.



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