Ancora sul Jobs act

Ancora sul Jobs act

Per un lavoro nuovo

Lo scorso 22 gennaio, la Corte costituzionale si è nuovamente pronunciata sul c.d. Jobs act, sottoposto negli ultimi anni, in più occasioni, a dubbi di legittimità costituzionale, sì come la precedente ‘legge Fornero’.
Secondo la Corte, i licenziamenti collettivi, rientrando nella locuzione «licenziamenti economici», pure ampia e atecnica, sono legittimi e non ricadono nelle eccezioni realizzate in precedenti sentenze.

Per comprendere la questione e i relativi risvolti, bisogna valutare quanto è rimasto in concreto del Jobs Act e quali le ragioni che hanno indotto la Consulta a pronunciarsi in tal senso.

I decreti attuativi del Jobs Act, riforma promossa nel 2015, sono ben otto. Tra questi, assume centralità il d.lg. n. 23 del 2015, che introduce il nuovo contratto a tutele crescenti, senza però introdurre una nuova tipologia contrattuale, ma regolamentando il regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo. È previsto un ‘rimedio indennitario’ quale soluzione principale ed è relegato il reintegro sul posto di lavoro ai margini, quale sistema da adottare per i licenziamenti nulli o discri-minatori.

In sintesi, nella sua versione originaria, prima che la stessa Consulta, tra il 2018 e il 2020, stabilisse che tale principio fosse incostituzionale, era previsto un sistema automatico di calcolo dell’indennità di risarcimento legato alla anzianità di servizio del lavoratore ingiustamente licenziato con minimi e massimi.

L’istituzione del nuovo contratto, di fatto, finiva per portare la disapplicazione, indirettamente e progressivamente, delle tutele previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
In origine, l’art. 18 applicava un’unica sanzione: la reintegrazione sul posto di lavoro del lavoratore ingiustamente licenziato, nei casi previsti dalla l. n. 604 del 1966, ossia per i licenziamenti individuali. La reintegrazione si è allargata, poi, con la l. n. 223 del 1991, anche ai licenziamenti collettivi

Il citato decreto n. 23 del 2015, in questo, amplifica gli effetti della legge Fornero, che già di suo aveva ridisegnato le modalità di tutela distinguendo le sanzioni in base al tipo di illegittimità del licenziamento.

In materia, come sostenuto più volte dalla stessa Consulta, la riduzione del ricorso alla reintegrazione non è, in sé e per sé, incostituzionale, in quanto il legislatore salva la discrezionalità politica, insindacabile dai giudici. In altri termini, la politica può legittimamente decidere di ridurre le tutele sociali e graduare le sanzioni, purché questi interventi rispettino i canoni costitu-zionali di proporzionalità e ragionevolezza. Canoni violati più volte sia dalla riforma dell’art. 18, censurato con le sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022 (in entrambi i casi la Corte ha allargato il ricorso alla reintegrazione), sia dal d.lg. n. 23 del 2015, destinatario a sua volta di diverse condanne, censure e correzioni, tanto politiche quanto giudiziarie.
Sul piano politico è arrivata, nel 2020, su reclamo collettivo della Cgil, la pronuncia del Comitato europeo dei diritti sociali di Strasburgo, secondo cui l’Italia viola il diritto di lavoratrici e lavoratori di ricevere un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione in caso di licenziamento illegittimo.
Sul piano giuridico e giudiziario, le censure della Corte costituzionale sono state già tre.

La prima, probabilmente la più importante, è la sentenza n. 194 del 2018, a cui è seguita la sentenza n. 150 del 2020. La Consulta ha dichiarato incostituzionale il meccanismo automatico di calcolo, sostenendo «l’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente». Si torna quindi a una valutazione personalizzata del giudice sul caso concreto del lavoratore ricorrente, pur entro i limiti previsti dalla norma.

Più di recente, la Corte costituzionale ha richiamato il legislatore al suo ruolo.
Chiamata a esprimersi su un’eccezione di legittimità costituzionale relativa alla disciplina sui licenziamenti nelle piccole imprese, la Consulta ha ritenuto inammissibile la questione, non tanto perché non riconoscesse un vizio, ma perché la normativa nel suo complesso risulta ormai frastagliata e inadeguata a garantire il diritto dei lavoratori in un contesto socio-economico come l’attuale. Per questa ragione, un intervento della Corte non avrebbe risolto il problema e i giudici hanno dichiarato la necessità di una riforma complessiva della materia, avvertendo la politica che «un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte».

Non si comprende il perché, seguendo le stesse linee giuridiche, sia stato rigettato completamente il ricorso presentato dalla Corte di Appello di Napoli sui licenziamenti collettivi, in quanto con tale pronuncia, di fatto, si creano delle disparità tra lavoratori assunti prima o dopo il 7 marzo 2015.
Ammesso e non concesso, infatti, che non vi fosse eccesso di delega, resta evidente che mentre l’articolo 18 St. lav., come modificato, prevede la reintegrazione in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta; il d.lg. n. 23 del 2015 prevede invece la semplice indennità monetaria. In altri termini, i lavoratori, sottoposti alla medesima procedura di licenziamento collettivo dei colleghi, danneggiati dalla stessa violazione dei criteri di scelta, ricevono un trattamento diver-so a seconda della data della loro assunzione.
Dichiarando non fondata la questione sollevata dai giudici partenopei, la Consulta ritiene che la differenza di trattamento su base temporale rientri nella discrezionalità del legislatore, così come la scelta di una tutela meramente monetaria, e quindi meno dissuasiva nei confronti dei datori di lavoro più spregiudicati o più ricchi. Tanto più, sostiene la Corte, che l’obiettivo della riforma del lavoro era «incentivare l’occupazione, soprattutto giovanile, e la fuoriuscita dal precariato a mezzo della crea-zione di una fattispecie di lavoro subordinato a tempo indeterminato maggiormente ‘attrattiva’ per i datori di lavoro».
Pur non soffermandosi sulla questione, la sentenza della Corte costituzionale cita proprio un punto spesso trascurato nell’analisi del rapporto tra criteri direttivi della legge delega e misure previste dai decreti attuativi varati poi dal governo Renzi.

Due essenziali finalità citate nella l. n. 183 del 2014, delega alla base del Jobs act, semplificazione della disciplina giuslavoristica e stimolo all’occupazione che in dettaglio ed analisi, non sono stati raggiunti.
Nello specifico, tanto nella legge delega, quanto nei decreti attuativi, la spiegazione sul rapporto tra modifica della disciplina sui licenziamenti (o, meglio, tra riduzione delle tutele in caso di licenziamento illecito) e aumento dell’occupazione manca completamente. Tanto più che l’introduzione del contratto a tutele crescenti, con la conseguente ulteriore compressione della tutela reintegratoria, si è accompagnata a misure di decontribuzione per le nuove assunzioni, che distorcono l’analisi dei dati: insomma, l’eventuale aumento dell’occupazione deriva dal fatto che lo Stato ha pagato i contributi al posto delle imprese o dalla previsione di sanzioni minime in caso di licenziamenti ingiustificati.

Sulla semplificazione, invece, basta sfogliare l’ultima sentenza della Corte costituzionale per notare quanto sia complesso lo scenario delineato dalla riforma, che non solo non ha risolto le ambiguità esistenti, ma ha creato nuove complicazioni. L’attuale disciplina sulle sanzioni in caso di licenziamento ingiustificato è infatti tutt’altro che semplificata: convivono negli stessi tribunali, come nelle sedi di conciliazione, differenti procedure e diverse norme di riferimento, a seconda della data di assunzione del lavoratore ingiustamente licenziato.

In questo, sarebbe necessario procedere:

– a uniformare la disciplina sui licenziamenti collettivi ripristinando maggior tutele e ciò anche la fine di non scaricare i costi di ristrutturazioni aziendali a carico dello stato;
– alla revisione del quadro normativo, donando omogeneità all’insieme pesantemente rivoluzionato da numerose sentenze e allineandolo a quanto la Corte europea ha evidenziato;
– al recepimento degli inviti della Consulta, che più volte ha delineato gli ambiti di intervento necessari al fine di ripristinare correttezza ed equità al quadro normativo attuale;
– all’inserimento nel nuovo quadro normativo di una progressione del regime sanzionatorio, fino ad arrivare alla reintegra dei lavoratori addizionata a sanzioni monetarie per fatti palesemente illegittimi.

In un uno scenario socio-economico complesso come quello attuale, resta indispensabile lavorare su due fronti: aumento delle tutele e corretta gestione delle politiche attive, anche e non solo nella parte in cui si incentiva all’assunzione e non si pongono freni ai licenziamenti.



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