BIG QUIT: LAVORATORI IN FUGA

BIG QUIT: LAVORATORI IN FUGA

Il lavoro come strumento di realizzazione personale

Lo spontaneo abbandono di massa del posto di lavoro è da sempre considerato sintomo di stabilità economica. Tendenzialmente, è perché i lavoratori reputano più proficuo avventurarsi alla ricerca di un impiego più gratificante e meglio rispondente alle proprie aspirazioni che accontentarsi. E ci si mette in gioco quando le cose vanno, tutto sommato, bene.

Il periodo storico attuale consegna una diversa (e forse opposta) tendenza.

Si assiste a dimissioni volontarie di massa in un momento tutt’altro che positivo.
È l’epoca della Great resignation.
I numeri reali sono difficili da cogliere. Probabilmente la questione interessa circa 4-5 milioni di persone.
In Europa il fenomeno sta portando a forti difficoltà per le aziende nel reperimento dei lavoratori.

Le nuove generazioni non sembrano più disposte, come accadeva in un passato prossimo, a lavorare molte ore al giorno pur di permettersi un tenore di vita elevato. Preferiscono una vita meno agiata ma con più spazio per attività libere e creative. Sentono di avere più difficoltà a sentirsi davvero inclusi, a portare idee innovative o a vivere l’entusiasmo per le attività che svolgono.
In quest’ottica, il fenomeno delle dimissioni di massa appare una reazione ai dettami imposti dalla società. O forse è soltanto che in molti hanno raggiunto un punto di rottura, dopo aver sopportato carichi eccessivi e, di conseguenza, una irragionevole pressione psicologica.
Non è un caso che l’abbandono degli impieghi sia maggiore in quei settori che hanno implementato significativamente la propria domanda durante la pandemia, portando a ritmi di lavoro insostenibili e al burnout dei lavoratori.

Per tanti, quindi, la scelta di lasciare il proprio posto di lavoro è strettamente connessa alle inadeguate condizioni lavorative.

Da qui, il burnout, portato dello stress cronico sul lavoro, difficile da gestire. È caratterizzato da uno svilimento di energie, spossatezza, da un crescente allontanamento mentale, e, consequenzialmente, da una ridotta efficacia professionale.

Il periodo emergenziale ha portato alla luce ataviche contraddizioni.
La crisi ha accelerato processi degenerativi già in corso, squilibri e divari economico intollerabili. Ha tolto il velo da una cultura del lavoro performativa che antepone la produzione e il profitto al benessere fisico e psicologico; è emersa l’incapacità di comprendere che da quello stesso benessere potrebbero scaturire risultati migliori.

Il sistema-lavoro deve mutare. Ma serve che qualcosa cambi prima di tutto nella coscienza collettiva.
Sarà necessario intervenire per la promozione di un lavoro ‘più giusto’, al servizio dei bisogni dei singoli. Diversamente, a rimetterci non saranno più solo i dipendenti, ma le stesse aziende. La sfida dovrà passare per una crescita diversa, che non contempli soltanto il digitale e la transizione ecologica, ma anche un modello di sviluppo che sia socialmente e umanamente sostenibile.
Un’idea potrebbe essere quella di aprire alla c.d. ‘settimana lavorativa ridotta’ (come in tanti altri Paesi), che permetterebbe anche ai lavoratori di immettere il proprio reddito nel sistema economico dietro prestazioni di servizio o acquisto di beni, favorendo la circolarità dell’economia e abbassando, di contro, il crescente divario tra ‘categorie sociali’.



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