Codice di comportamento dei dipendenti pubblici

Codice di comportamento dei dipendenti pubblici

In particolare, l’uso delle tecnologie informatiche

L’entrata in vigore del regolamento di modifica del d.P.R. n. 62 del 2013 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici) segna un ulteriore passo in avanti sulla strada di una riforma della pubblica amministrazione che intende fare del capitale umano uno dei pilastri della sua efficienza.

Il decreto segue le direttrici del PNRR2 e aggiorna il vigente Codice di comportamento risalente all’anno 2013 per adeguarlo al nuovo contesto socio-lavorativo, alle esigenze di maggiore tutela dell’ambiente e del principio di non discriminazione nei luoghi di lavoro e a quelle derivanti dall’evoluzione e dalla maggiore diffusione dei social media.

In questa direzione si collocano le previsioni volte a monitorare l’utilizzo delle tecnologie informatiche da parte dei dipendenti pubblici, con facoltà per l’amministrazione di svolgere gli accertamenti necessari a verificare il loro corretto utilizzo e a garantire la sicurezza degli stessi sistemi informatici.
Si introduce un obbligo di comportamento conformato al rispetto dell’ambiente e finalizzato alla riduzione del consumo energetico, della risorsa idrica e, più in generale, dei materiali e delle risorse fornite dall’amministrazione per l’assolvimento dei propri compiti, per la riduzione dei rifiuti e il loro riciclo.
Si vietano le discriminazioni, precisando che il dipendente è obbligato, sui luoghi di lavoro, a conformare la propria condotta al rispetto della personalità, della dignità e dell’integrità fisica e psichica degli altri, oltre a tenere nei rapporti con il pubblico un comportamento idoneo a soddisfare le esigenze dell’utenza. I dipendenti pubblici saranno, dunque, chiamati a prestare particolare attenzione non soltanto a quello che pubblicano direttamente, ma anche ai commenti che lasciano su altre bacheche e a quelli che ospitano sulla propria. «Il dipendente», recita il nuovo codice di comportamento, «utilizza gli account dei social media di cui è titolare in modo che le opinioni ivi espresse e i contenuti ivi pubblicati, propri o di terzi, non siano in alcun modo attribuibili all’amministrazione di appartenenza o possano, in alcun modo, lederne il prestigio»; ciò al precipuo fine di «non ledere il prestigio, il decoro o l’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale».
Ma non è tutto.
Agli statali che operano sui social è fatto, altresì, divieto di inserire nei propri profili riferimenti all’amministrazione per la quale lavorano. Se sulle loro bacheche dovessero apparire commenti offensivi, ciò sarebbe considerata una ‘aggravante’; se dalle piattaforme social sono «ricavabili o espressamente indicate le qualifiche professionali o di appartenenza del dipendente», questo «costituisce elemento valutabile ai fini della eventuale sanzione disciplinare».

Le disposizioni sono volte a ricondurre a maggiore responsabilità la condotta dei dipendenti pubblici, che può essere foriera talvolta inconsapevole di danno al decoro o immagine dell’amministrazione, anche con riferimento al «rispetto dell’ambiente» e al contenimento degli sprechi e della spesa pubblica.
Se l’intento è condivisibile, desta, tuttavia, perplessità l’ampiezza delle previsioni approvate («in alcun modo», onere di vigilanza su ciò che viene pubblicato da terzi, divieto di indicare l’amministrazione e il profilo di appartenenza), che rischia di rendere sanzionabile il pubblico dipendente anche nelle ipotesi in cui non ‘vigili’ sulla condotta dei terzi o non preveda anche l’imponderabile. Sembra porsi in tal modo in capo al dipendente statale un dovere di controllo che non è agevole esercitare, rendendo dai confini troppo incerti l’area nella quale è possibile ricondurre l’insorgere di responsabilità di natura giuridica (erariale, disciplinare, civile che sia).
È evidente la volontà di far maturare una seria e provata consapevolezza nell’utilizzo di tali strumenti in un’ottica di tutela della p.a. e di ridurre al minimo i numerosi rischi correlati all’uso improprio dei social network, ma occorre evitare che si possa configurare in capo al cittadino, per via della sola qualifica professionale rivestita, una responsabilità di natura oggettiva per condotte dal medesimo non controllabili.

La sfida è innanzitutto culturale e comportamentale. Non può non prendersi atto delle preoccupanti dimensioni che stanno assumendo i pericoli riconducibili alla navigazione in rete, ai quali è esposto chiunque, adulto o adolescente, non sia stato informato né formato al corretto impiego degli strumenti telematici.
L’auspicio è che siano presto definite nuove indicazioni esplicative, volte a mitigare o, comunque, a ricondurre nei corretti confini ermeneutici la portata di norme che, se oggetto di stretta e rigida interpretazione, potrebbero avere in sede applicativa delle ricadute distorsive della ratio legis. Indispensabile comunque anche l’attivazione di percorsi formativi analoghi a quelli introdotti per i dipendenti statali (sul corretto impiego dei social network e sui rischi correlati) all’interno di tutte le pp.aa. e degli istituti scolastici, per educare i giovani e istruire gli adulti al corretto impiego dei social, il cui uso, spesso improprio, è fonte di dipendenza psicologica e di illecita compromissione di diritti costituzionalmente tutelati.
Si intervenga, insomma, facendo chiarezza sul significato di norme che potrebbero risultare troppo restrittive e passibili di un’applicazione frustrante l’intento del decisore politico e, nel contempo, si estenda l’ambito dell’intervento formativo per educare le nuove e le vecchie generazioni a un corretto impiego dei servizi telematici.



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