Diritto all’aborto

Diritto all’aborto

Tra libertà di autodeterminazione e responsabilità

La sentenza della Corte Suprema degli Stati uniti dello scorso 24 giugno disconosce il diritto costituzionale all’aborto, che dal 1973 era protetto dalla storica decisione ‘Roe c. Wade’.
Secondo i giudici, il diritto all’autodeterminazione in gravidanza non è una prerogativa riconosciuta dai padri fondatori e averlo dedotto dal quattordicesimo emendamento sotto le spoglie di una privacy della donna rispetto all’ingerenza statale è stato «egregiously wrong».
Con questa decisione, i singoli Stati restano liberi di applicare le speciali leggi in materia. In Texas e Missouri l’aborto è illegale.

I diritti fondamentali rappresentano l’essenza del costituzionalismo moderno.
Taluni di questi diritti involgono questioni eticamente sensibili, e lambiscono il campo della bioetica, che riguarda questioni religiose, filosofiche, giuridiche, mediche, da sempre terra di tutti (e di nessuno), terreno senza mappa (o una mappa con troppi riferimenti), nel quale è difficile muoversi, facile perdere l’orientamento, pressoché impossibile trovare un centro unificatore alla riflessione.

Attorno all’evento «nascita», da sempre i giuristi sono agitati da dubbi e perplessità. Quella della interruzione di gravidanza scuote gli animi come poche.

Da una iniziale situazione di generalizzata proibizione, assistita addirittura da sanzione penale, si è passati nella maggior parte degli ordinamenti sviluppati occidentali – non senza una faticosa composizione delle contrapposte posizioni – all’affermazione di una liceità giuridica dell’aborto condizionata al verificarsi di determinati presupposti legittimanti, più o meno ampi a seconda delle legislazioni.

I Paesi dell’Europa continentale, anche se con sfumature diverse, hanno cercato di operare un bilanciamento dei diritti in rilievo. Ma il vecchio continente non è, a conti fatti, così progressista come potrebbe sembrare.
A Malta, l’aborto è vietato in ogni sua forma, senza eccezioni, anche nei casi di stupro, incesto, anomalie del feto o rischi per la salute della madre. Il medico che aiuta una donna a interrompere la gravidanza rischia fino a 4 anni di carcere e il ritiro definitivo della licenza. La donna rischia fino a 3 anni di carcere, in virtù di una criminalizzazione risalente alla legge coloniale britannica, stabilita sull’isola dal XIX secolo.
Insieme a Malta, la Polonia è lo Stato dell’Unione europea con la legislazione più restrittiva in materia: il 27 gennaio 2021 il Tribunale costituzionale pronuncia una sentenza che rende impossibile l’accesso all’aborto in quasi tutte le circostanze (comprese le gravi malformazioni genetiche).
La situazione è molto simile in Ungheria: l’interruzione di gravidanza è possibile fino alla dodicesima settimana, ma prevede un lungo iter di colloqui che, secondo quanto denunciano le associazioni, hanno il solo scopo di disincentivarlo.
La situazione peggiore si registra sicuramente in Turchia, dove la legislazione consente l’aborto fino alla decima settimana di gestazione, in presenza di determinati presupposti, ma, se la donna è sposata, occorre il consenso del marito (come negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita).

La legge italiana, la n. 194 del 1978, è il frutto indiscutibile della ricerca di un esito compromissorio, che si mantiene in un difficile quanto delicato equilibrio lungo il crinale che divide e contrappone i destini di due soggetti, irrimediabilmente legati l’uno all’altro.
Decidere quando abbia davvero inizio la vita umana, da un punto di vista medico, filosofico, etico o religioso, porterebbe in uno spazio nel quale è pressoché impossibile muoversi e sarebbe difficilissimo uscirne con certezze e principi validi per tutti. Ne ha tenuto conto il legislatore, che ha tentato un primo delicato bilanciamento tra il diritto all’autodeterminazione della donna e la tutela del nascituro, fissando, un termine, non legato a determinata posizione scientifica, entro il quale il primo prevale sul secondo.

Come sempre, la libertà di autodeterminazione, che è emanazione della dignità umana, deve aver conto anche della dimensione relazionale della vita. Questo vuole dire che – tanto su questioni che riguardano l’inizio della vita, quanto su problemi che si palesano al momento in cui essa finisce – è necessario richiamarsi a un esercizio responsabile dei diritti. E si sa che il tribunale davanti al quale questa responsabilità deve essere fatta valere non può che essere in primo luogo quello del ‘foro interno’ delle proprie coscienze.

Il divieto assoluto di aborto, che non abbia conto di situazioni e circostanze, viola la dignità umana, perché impone maternità non desiderate e perché, con realismo, costringe a pericolosi aborti clandestini.
Per altro verso, resta necessario elevare la soglia di percezione del rispetto della vita, nella società e nella gestante.
Resta anche essenziale evitare aborti per futili motivi, riconoscendo alla donna una libertà non arbitraria e capricciosa ma carica di responsabilità.

Una giusta regolazione non basta.
La società operi costantemente per una sempre maggiore consapevolezza, soprattutto delle giovani (e talvolta giovanissime) donne, attraverso l’informazione e la consulenza individuale, per far sì che sempre meno donne si trovino davanti a scelte che restano scelte di sofferenza, e soprattutto senza nemmeno sapere come si sia arrivate al doloroso bivio.

[Raffaella Capaldo e Antonella Di Ronza]



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