(Dis)Parità di genere e ben-essere sociale

(Dis)Parità di genere e ben-essere sociale

Conquistare una effettiva parità di genere è una delle sfide più importanti per il progresso sociale. Vorrebbe dire conquistare una società basata su equilibrio, giustizia e riconoscimento reciproco, una società che trae ricchezza dalle differenze, che non diventino disuguaglianze.

L’obiettivo 5 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite definisce la parità di genere come “condizione essenziale per uno sviluppo sostenibile, non solo economico ma anche umano e sociale”.
In questa prospettiva, non può esserci vero ben-essere se parte della popolazione resta frenata da barriere e squilibri che limitano la libertà individuale e collettiva.

Negli ultimi anni i progressi sono stati significativi, è vero. Ma le disparità restano profonde.
Sul piano normativo, Italia ed Unione europea hanno compiuto negli anni passi decisivi per ridurre il divario di genere. Il Codice delle Pari Opportunità (d.lg. n. 198 del 2006) rappresenta la base giuridica delle politiche di uguaglianza, mentre la Gender Equality Strategy 2020–2025 dell’Unione europea individua obiettivi chiari per promuovere la parità effettiva in tutti i settori: dal lavoro alla politica, fino alla lotta contro la violenza di genere. Anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha riportato l’attenzione sul principio della parità come criterio trasversale, prevedendo misure per favorire l’occupazione femminile, sostenere l’imprenditoria delle donne e garantire un equilibrio più equo nelle opportunità professionali.
Accanto a ciò, strumenti come il bilancio di genere consentono di valutare in modo concreto come le risorse pubbliche influenzino la vita di uomini e donne, promuovendo decisioni economiche più giuste.
Nel settore privato, la legge Golfo-Mosca ha incentivato la presenza femminile nei consigli di amministrazione, segnando un passo avanti verso una leadership più rappresentativa e meritocratica.

Eppure gender gap si manifesta ancora in molte forme: nelle retribuzioni, nell’accesso al lavoro, nella rappresentanza politica, nella distribuzione dei ruoli familiari.
Secondo i dati Istat, il tasso di occupazione femminile rimane tra i più bassi d’Europa, e le donne dedicano ancora oggi un numero di ore molto maggiore al lavoro domestico e di cura rispetto agli uomini.
Questo perché la legge da sola non basta. Serve un cambiamento culturale diffuso, che renda la parità non un obbligo, ma un valore condiviso.

Peraltro non si può negare neanche che pure molti uomini vivono la pressione di modelli rigidi, che li costringono a interpretare ruoli di forza, ostacolando la loro libertà di vivere pienamente la propria sfera affettiva e familiare.
La disuguaglianza di genere non è mai un problema di una parte, ma una perdita per tutti.

Occorre allora agire su più livelli: politico, culturale, educativo e familiare.
Le politiche pubbliche devono sostenere la conciliazione vita-lavoro, garantendo servizi accessibili, congedi parentali paritari e orari flessibili che permettano a uomini e donne di condividere le responsabilità familiari.
La famiglia in questa prospettiva, diventa il primo luogo in cui si costruisce la cultura della parità: quando la cura, l’educazione dei figli e il lavoro domestico vengono riconosciuti come compiti comuni, l’equilibrio si riflette anche nella società. Allo stesso tempo, è fondamentale investire nella formazione, per contrastare gli stereotipi di genere fin dall’infanzia e incoraggiare la partecipazione delle ragazze in settori dominati da presenza maschile. Le istituzioni e le imprese dovrebbero sostenere una leadership inclusiva, capace di unire competenza e sensibilità umana, riconoscendo che la diversità è una risorsa e non un ostacolo.



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