EMERGENZA AMBIENTE

EMERGENZA AMBIENTE

Oltre ogni limite

Le dinamiche geopolitiche, economiche, commerciali continuano a rallentare, se non addirittura a bloccare, le azioni che potrebbero potenzialmente salvare la Terra, e la scienza subisce le continue prevaricazioni dell’economia.
Crescono le preoccupazioni per lo stato di salute del Pianeta, anche in ragione dell’atteggiamento complice e colpevole di tanti governi di fronte all’emergenza ambientale.

Come siamo giunti al punto di rottura?

Nella cultura occidentale, l’Uomo tende a considerarsi «l’oggetto più grande del paesaggio, dopo aver abbattuto tutti gli alberi». Una piccolissima parte della specie homo sapiens sapiens, che a sua volta costituisce solo una piccolissima tessera del grande mosaico della biodiversità naturale.
Da altra prospettiva, per la Natura, la specie umana ha la stessa importanza del microbo o della zanzara, ma rimane l’unico essere vivente responsabile del proprio destino, dell’unica vita a disposizione.

L’Uomo è riuscito a occupare tutti i continenti, trasformando la Terra in modo straordinario, come prima erano riuscite a fare soltanto le piante verdi.
Fino ad oggi le piante verdi e l’Uomo sono le uniche forme di vita in grado di trasformare la composizione dell’atmosfera. Mentre, però, le piante verdi possono sopravvivere benissimo senza l’Uomo, non vale il viceversa.
Il processo di fotosintesi produce sostanze residuali di qualità e in quantità tali da non risultare dannose per il produttore. Nell’ecosistema l’ossigeno circola, non si accumula.
Nel processo industriale invece, l’Uomo produce sostanze velenose per la sua stessa salute. Sostanze che si accumulano nell’atmosfera, sia perché sono sconosciute in natura, sia perché emesse in quantità troppo elevate. Per questa via, l’Uomo sta preparando le condizioni ambientali ideali per la sesta grande estinzione di massa nella storia biologica della Terra.

La storia dell’Uomo e delle sue rivoluzioni è stata senza dubbio una storia di progresso, ma il risultato non è stato quello di un ben-essere duraturo per tutti, ma della concentrazione di ricchezza in poche mani, un ben-avere. Al potere di alcuni si contrappongono la povertà di centinaia di milioni di persone e una crisi globale cronica, iniziata con il boom economico degli anni Cinquanta.
Questa crisi nasce proprio da una disfunzione nel rapporto del sistema sociale con il proprio ambiente.

Alla base, v’è anzitutto una concezione del mondo più o meno chiusa, caratterizzata da una selezione delle informazioni, che genera filtri, e dunque limiti cognitivi, che determinano una visione distorta della realtà. I mezzi di informazione giocano un ruolo importante nella ‘costruzione’ della realtà.
Il progresso tecnologico, poi, non è sempre sfruttato per le migliori utilità. L’uso dell’innovazione è spesso influenzato da fattori esterni: politici, economici, sociali, culturali.
Non mancano, tra le ragioni del disagio, strutture di disuguaglianza sociale, di distribuzione diseguale di reddito, istruzione e potere.

I sintomi della crisi ambientale sono evidenti da decenni, ma continuano a essere trattati come se si trattasse di una novità. In un costante sentimento di emergenza.
Il livello raggiunto da molti indici (riscaldamento del clima, sovrappopolazione, inquinamento, estinzione delle specie, pericolo di guerre, ecc.) rivela che il rischio è altissimo da tempo.

La crisi in corso è una crisi
socio-ambientale, riguardando il rapporto fra sistema sociale e ambiente interiore;
eco-ambientale, del rapporto fra sistema sociale e ambiente esterno.
Sia la crisi socio-ambientale sia quella eco-ambientale affondano le proprie radici in una chiusura, mentale e fisica, che impedisce l’apprendimento e l’evoluzione del sistema, l’ambiente perde importanza, tanto da divenire quasi superfluo.
Le crisi ambientali sono null’altro che la conseguenza dell’irrigidimento della concezione del mondo e del contesto di vita, e ciò dipende, s’è detto, da filtri selettivi (psicologici, culturali, comunicativi e sociali) nella percezione della realtà; strutture di potere e di disuguaglianza; potere della tecnologia e tecnologia del potere.

Attraverso il sapere tecnico e le espansioni tecnologiche ci si è liberati dai vincoli territoriali e anche questa deterritorializzazione ha portato nel tempo a sottrarre sempre di più importanza alle relazioni tra insediamento umano e ambiente, relazioni che invece hanno fatto la storia dei luoghi e la loro identità, unica, riconoscibile, irripetibile.
Il territorio diventa così marginale rispetto alla logica insediativa, che prescinde ormai dai luoghi e dalla loro peculiarità. La produzione industriale di merci è decontestualizzata e insegue scelte e logiche insediative collegate all’organizzazione del ciclo produttivo, dei mercati e dei differenziali salariali, interessi politici, e qualificazione della forza lavoro.
Da qui, un’immane mobilitazione di forza lavoro che fa dello sradicamento geografico e sociale la condizione prevalente del ‘residente’, che non è più ‘abitante’: la condizione di straniero, immigrato, city user diviene prevalente in questo modello insediativo metropolitano, e trascina con sé la rottura delle relazioni fra etnia, linguaggio e territorio.
La marginalizzazione dell’elemento territoriale porta con sé scelte produttive distruttive per l’ambiente. Se l’abitante è dissolto e frammentato spazialmente nei siti del lavoro, dello svago, della fruizione della natura, del consumo, della cura, della riproduzione, e quindi non ha più ‘luoghi’ da abitare nei quali interagire e rendere sociali tutte queste funzioni, non ha più relazione di scambio e identificazione con il proprio ambiente di vita.

I due problemi si intrecciano: la sparizione fisica dello spazio pubblico corrisponde alla progressiva perdita di potere sulla cosa pubblica da parte della comunità locale. La crisi socio-ambientale è quindi anche la conseguenza di una rottura fra sistema sociale e natura umana.

Lo sviluppo delle isole di benessere crea ordine interno e sposta il disordine nell’ambiente circostante.
Ciò pone le basi perché il disordine ambientale raggiunga prima o poi un livello tale da colpire le isole stesse. Disequilibri ecologici nella biosfera sono prima poi anche squilibri nella società, che ad essa appartiene, perché riguardano tutti gli esseri umani.
Questo è esattamente ciò che sta accadendo oggi.

Le soluzioni della crisi socio-ambientale ed eco-ambientale sono state spesso viste in contrapposizione fra loro: o posti di lavoro o protezione dell’ambiente.
Ma potrebbe non essere così.
Fra le due crisi c’è stato sempre un terzo elemento, che è rimasto intoccabile: la crescita economica.
La stessa è stata posta a fondamento di ogni soluzione, sebbene in realtà fosse spesso proprio la causa del problema. Nessuno può negare che la crescita economica produca oggi sempre più ricchezza. Il problema sta nei piani di distribuzione dello sviluppo. Inoltre, l’aumento della produzione e dei consumi provoca un crescente sfruttamento della natura e maggiori emissioni inquinanti.

La crescita economica senza direzione porta a:
– concentrazione del potere e della ricchezza;
– finanziamento di interventi limitati nel settore sociale ed ecologico, perché il fine appare essere più quello di evitare proteste, quanto quello di risolvere i problemi alla radice;
– convivenza di sistemi democratici e strutture di disuguaglianza socio-economica;
– elusione di una redistribuzione del potere e della ricchezza, dall’alto verso il basso.

Orbene, se lo sviluppo sostenibile punta all’obiettivo di risolvere insieme la crisi socio-ambientale e quella eco-ambientale, vi sono a tal proposito due posizioni:
– il potere e la crescita economica non solo sono irrinunciabili, ma postulano responsabilità, competenza, capitali e progresso tecnologico;
– la crescita economica incontrollata, sì come la concentrazione di potere e di ricchezza, è la causa delle due crisi, e del loro mancato superamento.
Dalla prima posizione discende un concetto di ‘sviluppo sostenibile’ che ha solo la funzione di mantenere e legittimare lo status quo, e di disinnescare ogni tipo di critica, istituzionalizzandola.
Nella seconda posizione, il nuovo concetto di sviluppo sostenibile è invece il prodotto di una realtà sempre più evidente, quella della crisi globale. Questo concetto di sviluppo sostenibile mette e deve mettere radicalmente in discussione lo status quo, per farsi principio di una nuova concezione di mondo aperta, in concorrenza con quella dominante.

Lo sviluppo della società capitalistica-industriale ha superato i limiti della capacità portante (c.d. carrying capacity) dell’ambiente, e lo ha fatto in tre ambiti:

a) limite alle risorse, rinnovabili e no.
Le risorse rinnovabili, fonti di energia come il sole e il vento, o materiali biologici come il legno e gli alimenti, conoscono una riproduzione che soggiace a limiti, dovuti ad esempio ai tempi biologici di riproduzione. La popolazione umana cresce in modo esponenziale, mentre la disponibilità di cibo può crescere solo in maniera lineare.
Ancora più limitate sono le risorse non rinnovabili. Queste includono ad esempio le fonti di energia fossile (petrolio, carbone, gas), i metalli, il suolo e l’acqua potabile. Da sempre la disponibilità limitata di queste risorse è stata motivo di concorrenza e conflitti fra gli uomini. Basti pensare alle guerre per il controllo dei giacimenti petroliferi in Medio Oriente;

b) limite nella capacità di assorbimento dell’ambiente. L’inquinamento del suolo, dell’aria o dell’acqua è segno che questo limite è stato superato.
Il limite di assorbimento riguarda anche le sostanze naturali biodegradabili: la loro dannosità non dipende dalla qualità, bensì dalla quantità emessa. E, se l’anidride carbonica e il metano sono componenti naturali dell’atmosfera, con la rivoluzione industriale la loro concentrazione nell’aria è aumentata enormemente, e questo ha innescato l’effetto serra. Le prognosi considerano possibile un riscaldamento globale fino a 4 gradi Celsius entro il 2100, se l’umanità proseguirà sulla rotta attuale. Un tempo troppo corto per permettere l’adattamento degli ecosistemi.

c) limite della biodiversità.
Su di esso si basa la tenuta degli ecosistemi: maggiore è la biodiversità, maggiore è la resistenza dell’ecosistema a squilibri e crisi improvvise, ossia la capacità di evolversi e di adattarsi a nuove condizioni ambientali.

Allora serve chiedersi quali sono i bisogni fondamentali ai quali è indispensabile dare risposta.
Promuovere una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, la piena occupazione e il lavoro dignitoso per tutti, dovrebbe essere l’obiettivo.
La sfida è ardua, ma è ancora possibile costruire un futuro sostenibile.
Si può raggiungere il traguardo soltanto cambiando strategia, con taglio delle sovvenzioni dannose per l’ambiente, eliminazione graduale di tecnologie inquinanti, favorendo nel contempo alternative sostenibili e supportando le comunità colpite dal cambiamento. Un’economia circolare a zero emissioni di carbonio può essere decisiva per ridurre l’impatto sul capitale naturale, limitando altresì l’aumento delle temperature globali.
Devono cambiarsi le abitudini di vita, dalle modalità di spostamento alle abitudini alimentari.

La promozione di una crescita sostenibile e di un’economia verde, e la creazione di un numero sufficiente di posti di lavoro dignitosi, congiuntamente al rispetto dei diritti dell’uomo e dei limiti di sopportazione del Pianeta, hanno un’importanza cruciale sia per gli Stati in via di sviluppo, sia per quelli emergenti e industrializzati.



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