ERGASTOLO OSTATIVO

ERGASTOLO OSTATIVO

Rieducazione e recupero

L’istituto dell’ergastolo ostativo trova la propria disciplina nell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento giudiziario e fu pensato negli anni ’90 nell’ambito della legislazione di emergenza dell’epoca, in risposta alle stragi di mafia di quegli anni.
L’intenzione era quella di contrastare le grandi organizzazioni criminali mediante misure forti e rigorose.

La disposizione prevede limitazioni alla concessione di determinati benefici nei confronti dei soggetti condannati per reati connotati da peculiare pericolosità sociale. A differenza dei condannati all’ergastolo ordinario, i benefici penitenziari sono subordinati alla leale collaborazione con la giustizia, come definita dall’art. 58 ter, fatte salve le ipotesi in cui la collaborazione sia impossibile o comunque irrilevante.
Di largo uso è l’espressione ‘fine pena mai’, in quanto l’ergastolo ostativo può coincidere con l’intera vita del condannato trasformandosi in una pena che può dirsi perpetua.
A tali detenuti è precluso l’accesso al lavoro esterno, ai permessi premio, alla liberazione condizionale e alle misure alternative alla detenzione, a meno che non decidano di collaborare. La mancata collaborazione è intesa come segno di pericolosità sociale ed è comunque sintomo di un permanente legame con la criminalità organizzata.

Fin da subito, sono stati avanzati dubbi in ordine alla tenuta costituzionale della regola, se non altro per l’aperto contrasto della pena perpetua con la funzione rieducativa che dovrebbe essere propria della sanzione. Le perplessità sono state accresciute dal progressivo ampliamento del novero dei reati fatti rientrare nel raggio applicativo dell’art. 4 bis o.p.
Senza contare la discriminazione rispetto a quei soggetti che decidono di non collaborare ma per i quali non si indaga in ordine alle motivazioni della scelta, non necessariamente dovuta a un persistente legame con la criminalità organizzata.

Nel dibattito, che ha visto coinvolta anche la Corte costituzionale in più occasioni, si è inserita anche la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che, nel decidere il c.d. caso Viola c. Italia del 2019, ha censurato il differente trattamento sanzionatorio riservato a coloro che non collaborano, nonché l’automatismo e la presunzione di una continua pericolosità sociale e di un permanente legame con l’organizzazione criminale.
L’atteggiamento collaborativo non sempre è frutto di un reale pentimento. Più spesso è il risultato di mere valutazioni di convenienza, in vista dei vantaggi connessi. Parimenti, il ragionamento alla base della previsione dell’ergastolo ostativo non tiene conto del fatto che non si può rendere psicologicamente esigibile un comportamento di collaborazione. Oltre a porsi in contrasto con il principio fondamentale della finalità rieducativa della pena, la particolare misura sanzionatoria viola la dignità dei detenuti.

La Corte costituzionale chiude la partita con la decisione n. 253 del 2019, con la quale, sia pure con formale riferimento solo ai permessi premio, dichiara illegittima per contrasto con l’art. 27 cost. la presunzione di pericolosità sociale del condannato fondata sul rifiuto di collaborare. La posizione è confermata e rafforzata con un’ordinanza dello scorso anno con la quale si rimette la questione all’intervento del legislatore.

Di recente, è stata approvata la proposta di legge di iniziativa Parlamentare che modifica il regime di concessione dei benefici penitenziari.
Si prevede la possibilità di «concedere i benefici penitenziari agli internati per i delitti previsti dalla norma anche in assenza di collaborazione con la giustizia, purché gli stessi dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento e alleghino elementi specifici diversi ed ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile».
Il giudice è inoltre tenuto a valutare la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore della vittima sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparatoria. Infine, quanto all’istruttoria, il giudice deve indicare le ragioni dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza. La decisione va inoltre presa in forma collegiale e non più monocratica.

[Sui limiti del sistema carcerario e sull’esigenza di rivedere il sistema sanzionatoria, in funzione di recupero, v. le proposte raccolte in https://www.meritocrazia.eu/e-possibile-andare-oltre-il-carcere/]



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