IL SENSO DELLA RESILIENZA

IL SENSO DELLA RESILIENZA

Capacità o incapacità?

È fatto noto che le soft skill sono ormai diventate fondamentali, spesso decisive, per definire i profili di chi si candida a una specifica posizione lavorativa, anche se la prima selezione prende avvio dall’analisi dei titoli e delle competenze necessarie per ricoprire un determinato ruolo.

Negli ultimi anni una delle soft skill più richiesta è la capacità di resilienza, che nel mondo del lavoro, a conti fatti, assume la specifica accezione di grado di adattamento al cambiamento e di capacità di non farsi scoraggiare dalle novità, di adattarsi a ogni scelta aziendale.

Il termine ‘resilienza’, nel suo significato originario, appartiene alla fisica dei materiali e indica l’attitudine di un corpo a riacquistare la forma iniziale dopo aver subito una deformazione causata da un impatto. Indica quindi la caratteristica di alcuni materiali di assorbire molta energia in caso di urto, in contrapposizione ai materiali rigidi, che invece in caso di impatto assorbono poca energia.
‘Resilienza’, cioè, non vuol dire ‘resistenza’, anzi indica piuttosto il suo opposto, una ‘non resistenza’, funzionale alla sopravvivenza. Un piegarsi per non spezzarsi.

Partendo dal suo significato originario, il termine è stato poi utilizzato come metafora dalle più svariate discipline.
Dalla fisica è passato alla psicologia, che lo usa per descrivere la capacità dell’apparato psichico di mantenersi ‘compensato’ in occasione di gravi esperienze traumatiche e grazie alla quale il termine ha guadagnato ricorrenza anche nel linguaggio comune. A utilizzarlo per la prima volta è la psicologa americana Emmy Werner alla fine degli anni settanta. In psicologia, dunque, la resilienza è innanzitutto una modalità di elaborazione di un trauma, una riparazione, che però non può mai essere completa e definitiva, perché non riporta il sistema psico-affettivo del soggetto traumatizzato allo stato che ha preceduto il trauma; non può essere una resilienza nel senso letterale del termine. E questo è evidente perché l’uomo e la sua psiche non sono semplici materiali, ma meccanismi viventi assai complessi, che, per quanto riparati, non tornano mai esattamente come prima del guasto. Resta sempre una cicatrice nello sviluppo della personalità, un’incrinatura, una sbeccatura, con cui sarà sempre necessario fare i conti.
La resilienza dunque, in psicologia, nasce da una frustrazione per farsi opportunità.

Si tratta, insomma, di un concetto che, nel passaggio dal mondo della fisica a quello della psicologia, ha mantenuto un’accezione positiva ed accettabile.

Il problema sorge quando si fa un passaggio ulteriore, e dalla psicologia si passa al mondo socio-economico. Qui la resilienza diventa ‘atteggiamento politico’ e inizia a essere considerato l’unica via d’uscita da tempi bui, complessi e faticosi.
Si utilizza il termine, senza limiti né misura, per persuadere della necessità di farsi padroni della propria esistenza, di non farsi sovrastare dagli avvenimenti, di riuscire ad affrontare qualunque situazione a valenza negativa.
Eppure, analizzata correttamente e guardata da ogni lato, la resilienza, in sé, contraddice questi obiettivi.
Per comprenderlo, basta tornare alla sua etimologia.
Il verbo resilire è dato dall’aggiunta del prefisso re- al verbo salire (saltare, fare balzi, zampillare), col significato immediato di saltare indietro, ritornare in fretta, di colpo, rimbalzare, ripercuotersi, ma anche quello, traslato, di ritirarsi, restringersi, contrarsi. E poi contrarsi, fare un passo indietro, restringersi.

Essere resilienti, a una analisi che non si fermi alla superfice delle cose e soprattutto vada oltre i significati veicolati dai mezzi di comunicazione e condizionamento delle masse, significa aspettare passivamente che gli accadimenti negativi passino e che tornino tempi migliori, vincolati a una immagine del mondo incentrata sulla fatalità, sull’accadere degli eventi, fuori da ogni volontà umana.
Una visione che non consente di reagire, di compiere azioni per cambiare le cose nel presente.
In questo senso, la resilienza difetta di spirito di proposizione e promozione attiva, per l’affermazione di qualcosa in cui si crede; non porta con sé visione del futuro. È pura passività.
L’Uomo votato alla resilienza non conosce nulla per cui valga la pena lottare, nulla in cui credere, nulla per cui attivarsi. Sposta lo sguardo dal futuro, lo rimuove dal suo orizzonte, vivendo solo il presente nella sua ripetizione continua, facendosi bastare quel che ha. È la rassegnazione a un mondo non modificabile, senza possibilità di cambiamento e che lascia spazio solo all’adattamento a un ordine di cose, che non consente alternative.
Mentre l’Uomo ‘resistente’, incline a consociarsi con gli altri anche in forme rivoluzionare, vive forte la dissonanza tra la realtà e i propri sogni, il resiliente è completamente incapace di sognare, completamente inadatto a sogni, che gli consentirebbero di pensare alla possibilità di cambiamento.

Nulla tocca davvero il resiliente, che, ad assecondare i colpi della vita, semplicemente diviene impotente, incapace di reazioni creative e riformatrici.

Eppure oggi del termine ‘resilienza’ si abusa, senza prestare attenzione ai suoi effetti.
Sul piano politico, dalla richiesta di resilienza si diffida. Sempre più spesso i cittadini sono chiamati a fare propria la virtù dell’adattarsi, senza reagire alle storture invocando il cambiamento. Eppure vivere è altro. Vivere vuol dire adoperarsi per cambiare il mondo con le azioni, nutrire la passione trasformatrice che è essenza di ogni Rivoluzione culturale.

Allora, così intesa, quella della resilienza non è una vera abilità.
È piuttosto l’incapacità di rettificare, di rovesciare l’ordine delle cose; è l’incapacità di vedere le iniquità e di credere di poterle rimuovere; è l’incapacità di comprendere che non dobbiamo modificare noi stessi per essere all’altezza del mondo che viviamo; è l’incapacità di curarsi del mondo e dei suoi rapporti, nella indotta convinzione di non potete agire su di essi, e la nefasta conseguenza di curarsi solo del proprio io.



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