LA DIPENDENZA DA CIBO

LA DIPENDENZA DA CIBO

Quando mangiare diventa un rifugio

Tra le tante dipendenze patologiche che attanagliano la società moderna ve n’è una troppo spesso sottovalutata e che meriterebbe, invece, maggiore attenzione: la dipendenza da cibo.

In forte aumento tra giovani e giovanissimi, anche a causa delle difficoltà sociali portate dalle restrizioni pandemiche, questo tipo di disagio può avere ripercussioni gravi sia sulla salute individuale che sulla sostenibilità del sistema sanitario.

Si è dipendenti da sostanze o comportamenti quando una semplice abitudine si trasforma nella condizione patologica della «ricerca spasmodica del piacere».

È noto che alimenti come cioccolato o patatine scatenano in alcuni individui un bisogno irrefrenabile e il passaggio dalla ‘preferenza’ alla ‘dipendenza’ può spiegarsi in tempi brevissimi.
Molto dipende dalla dopamina, neurotrasmettitore i cui livelli aumentano prima e durante le attività piacevoli, che collega il sistema limbico (delle emozioni) con l’ippocampo (la sede della memoria). Le azioni piacevoli vengono associate a ricordi intensi; il problema sorge quando il ricordo e il desiderio di ripetere quell’attività prendono il sopravvento sulla libertà di scelta della persona. La dopamina supera i limiti sopportabili, rompendo i freni inibitori e facendo diminuire la funzionalità dei lobi frontali, responsabili del controllo e della forza di volontà.

Più spesso, la dipendenza da cibo trova terreno fertile nell’assunzione di cibi ad alto contenuto di grassi. Questi, infatti, inducono il desiderio di un consumo ripetuto e via via sempre maggiore e fanno aumentare la produzione di endocannabinoidi (sostanze simili a quelle presenti nella marijuana), che inviano segnali al cervello volti a richiedere altri grassi.

Alla base della dipendenza da cibo vi sono prevalentemente fattori di tipo psicologico, come forte stress o squilibri emotivi occasionali.

La nota ‘fame nervosa’ sta a indicare quelle situazioni in cui l’assunzione di cibo dipende più da stimoli emozionali che da una reale necessità di nutrirsi. È scatenata soprattutto dalla difficoltà di gestire le emozioni negative e il cibo viene utilizzato come un ‘rifugio’ da tristezza, ansia, senso di smarrimento, rabbia e frustrazione.
Quando la fame nervosa raggiunge un’intensità e frequenza tali da causare disagio e condizionare significativamente la quotidianità, può sfociare in disturbi del comportamento alimentare come bulimia e binge eating (abbuffate senza condotte di eliminazione).
Anche quando non si trasforma in disturbo, la fame nervosa può procurare forte disagio e conseguenti sensi di colpa, con sbalzi di umore che, a loro volta, inducono nuovamente lo stimolo irrefrenabile di ricorrere al cibo per provare sollievo.
Oltre alla frustrazione, ciò comporta un aumento di peso, possibili disturbi digestivi, dolori gastrointestinali e cefalee.

Per uscirne, occorre comprendere di cosa si ha davvero ‘fame’, bisogno: se di compagnia, di affetto, di apprezzamento, di sentirsi accettati in famiglia, sul luogo di lavoro, in un gruppo.
Utile sarebbe tenere un diario nel quale annotare gli episodi nei quali si presenta lo stimolo, per analizzare le condizioni emotive del momento che hanno indotto il desiderio irrefrenabile di mangiare. Gli esperti consigliano anche di trovare forme di appagamento alternative al cibo, di non conservare cibo allettante in casa, ma di avere sempre con sé snack salutari e di sfogarsi facendo attività fisica.

Fondamentale è l’analisi delle abitudini alimentari assunte in famiglia, a scuola e nelle attività extrascolastiche, in quanto da esse dipende lo stile di vita alimentare che prenderà forma con la crescita. Un bambino che cresce in un ambiente dove si consumano cibi non sani e carente di un’adeguata informazione sulle qualità degli alimenti, avrà molte più probabilità di sviluppare una dipendenza da cibo.

Indicativi, in questo senso, anche i risultati degli studi relativi al fenomeno (correlato) dell’obesità, in particolare di quella riguardante bambini e pre-adolescenti. L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto tasso di obesità infantile. Una recente indagine su un campione di 50.000 bambini di terza elementare ha evidenziato che il 20,4% è in sovrappeso, il 9,4% obeso e il 2,4% gravemente obeso.
Dati preoccupanti.
Tale indagine ha altresì rivelato che quasi 1 bambino su 2 non fa una colazione adeguata e 1 su 4 non assume frutta, verdura e legumi a sufficienza nell’arco della settimana. Circa la metà dei bambini presi a campione, però, fa largo consumo di bevande zuccherate e snack dolci, pratica poca attività fisica, trascorrendo molto del tempo libero davanti a televisori, tablet o telefoni cellulari.
Come affermato anche dal CNAPPS (Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute), l’obesità infantile «rappresenta un grave problema di salute pubblica a livello globale, che impone la messa a punto di politiche di prevenzione». In tutto ciò, è importantissimo il ruolo della famiglia: di fronte ad un ragazzino con problemi di obesità, tutti i familiari dovrebbero entrare nella logica di un meccanismo di controllo.

Negli ultimi anni significativi i passi in avanti nel trattamento dei disturbi alimentari.
Quando un caso non è gestibile con tecniche di auto-aiuto, è necessario rivolgersi ad un’equipe di esperti del settore (psicoteraupeti, dietisti, medici specializzati, etc.), che usano un ‘linguaggio’ adeguato e seguono il paziente passo dopo passo.
Esistono, poi, servizi come quello fornito dall’ASPIC-Alimentazione di Roma, che mette a disposizione di chiunque ne abbia necessità uno ‘Sportello Cibo & Salute’, attraverso il quale è possibile accedere a tre colloqui gratuiti con personale specializzato nel campo dell’alimentazione (counselor, psicologi e psicoteraupeti).

Per fronteggiare in maniera adeguata la dipendenza da cibo e l’aumento vertiginoso dell’obesità infantile, risulta opportuno, tra l’altro:
– partire dai dati raccolti dai vari studi e promuovere stili di vita sani (in primis tra bambini e giovanissimi), attraverso campagne di sensibilizzazione organizzate con l’ausilio di pediatri e medici di base;
– implementare i controlli per assicurare massima qualità del cibo somministrato agli alunni nelle mense scolastiche;
– incrementare il numero di ore di attività fisica nelle scuole di ogni ordine e grado;
– promuovere sul territorio la nascita di ‘punti di ascolto’ per problematiche legate a disturbi alimentari, prendendo a modello lo Sportello dell’ASPIC di Roma.

 

 

 

 

 

Fonti:
www-ilgiornaledelcibo-it.cdn.ampproject.org; www-melarossa-it.cdn.ampproject; www.medicoepaziente.it; www.centropagina.it



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