La situazione dopo il ‘decreto Caivano’

La situazione dopo il ‘decreto Caivano’

Oltre la repressione

A pochi mesi dall’entrata in vigore del decreto Caivano, che ha irrigidito le forme di criminalizzazione minorile per cercare di arginare l’ormai dilagante fenomeno della delinquenza giovanile, ci si interroga sull’effettiva utilità dell’inasprimento del trattamento penale.

Alcune elaborazioni statistiche hanno restituito dati incrementali rispetto ai nuovi ingressi negli IPM italiani, che quest’anno hanno eguagliano il massimo storico di oltre 32.000 nuove detenzioni, già raggiunto nel 2015 e che invece si era assestato in calo negli anni intermedi.

Il dubbio è che si sia intervenuti troppo impulsivamente nella lotta alla criminalità minorile, innescando così il fenomeno inverso, con scarsa efficacia deterrente rispetto ai comportamenti penalmente rilevanti (che in alcuni contesti sociali sono addirittura esaltati e idealizzati, anche ad opera dei contenuti reperibili nell’industria cinematografica o musicale).
Se i tempi sono cambiati e le nuove generazioni non avvertono più né lo stigma sociale legato alla detenzione né il timore di dover scontare la pena in un istituto carcerario al prezzo della propria libertà, d’altra parte appare riduttivo limitare l’eradicamento del fenomeno al solo inasprimento della punizione.

Se le ultime misure sono state illuminate dall’adagio per cui «si educa punendo», appare quanto mai prioritario invertire i termini di tale equazione e giungere a un più lungimirante «educare per non dover punire più».

I fenomeni di criminalità giovanile affondano le loro radici in contesti sociali e familiari spesso degradati (in tutte le possibili declinazioni in cui ciò può estrinsecarsi: dal degrado economico, culturale, sociale o finanche di tutte queste forme insieme) e, dunque, anche a seguito di un (più o meno) lungo periodo di pena, con ogni probabilità il singolo minore farà ritorno nel medesimo contesto di provenienza, vanificando tutto il percorso di reinserimento sociale che pure ha seguito durante il periodo di detenzione.

Si rende evidente l’urgenza di un’architettura sistemica degli interventi, perché scaricare la gestione di tali fenomeni solo sul fronte giustizia o su quello penitenziario rischia di rendere irraggiungibili gli obiettivi di recupero e legalità che ci si propone di realizzare.

In caso di commissione di un reato è necessario scontare la pena prevista per la particolare fattispecie (seppure con le particolarità che sono imposte dalla giovane età, ma senza cedere a facili indulgenze disancorate dalla realtà), però è altrettanto decisivo concepire interventi sinergici tra tutte le istituzioni coinvolte affinché il sistema penale minorile valorizzi al massimo grado la finalità ultima, costituzionalmente prevista, della rieducazione del condannato.
Appare doveroso immaginare interventi integrati che coniughino il coinvolgimento delle famiglie nei percorsi individualizzati di trattamento costruiti sul minore detenuto, il coinvolgimento della scuola come ambiente di elezione per l’educazione e la formazione del cittadino socialmente attivo e ben inserito (con percorsi formativi mirati alla legalità, all’empatia) e soprattutto il potenziamento di percorsi di sostegno intramurario – anche psicologici – con attività e monitoraggio costante affinché nel-le giovani menti possano consolidarsi modelli comportamentali positivi e non criminali.



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