Le nuove forme del lavoro dipendente

Le nuove forme del lavoro dipendente

Oltre sistemi elusivi e perdita di tutele

Ancora attuale il problema dei lavoratori che sempre più spesso, per scelta o imposizione, collaborano con aziende pubbliche o private, aprendo partita Iva.

Le mille mutazioni tecnologiche, economiche e organizzative della società moderna rendono oggi il confine tra lavoro autonomo e lavoro dipendente molto più incerto. L’universo delle partite Iva annovera attualmente una miriade di nuovi lavori, difficilmente inquadrabili nella classificazione dipendente/autonomo.
Si pensi anche soltanto al lavoro della sharing economy.

A questo fenomeno bisogna aggiungere le tante storture regolamentari del lavoro in Italia, che favoriscono le imprese più spregiudicate, quelle intenzionate a eludere i costi dell’assunzione e a ingaggiare dipendenti con lo strumento contrattuale della partita Iva, con perdita di tutele come ferie, tfr, permessi per malattia, congedi familiari etc.

Il tema è delicato.
La legge ammette un contratto di collaborazione con soggetti esterni all’azienda, liberi professionisti con partita Iva, ma vieta che queste collaborazioni mascherino un rapporto di dipendenza effettivo.
Il divieto in tal caso è tassativo, con perimetri ben delineati sia dall’art. 2094 c.c. sia dal principio di indisponibilità del tipo di contratto (Corte cost. n. 121 del 1993, n 115 del 1994 e n. 76 del 2015).
Si stima, però, siano circa un milione le partite Iva cosiddette false e che il fenomeno sia in aumento.

Il proliferare di tali fenomeni elusivi merita una risposta adeguata.

Non bastano le sole sanzioni poste sia a carico del lavoratore che del datore di lavoro; occorrerebbe piuttosto una migliore distinzione tra collaborazione e lavoro dipendente.
È vero che esistono casi in cui tale rapporto potrebbe essere più conveniente se esercitato con partita Iva, come nel caso di progetti portati avanti in modo autonomo all’interno di una azienda, di fatto configurando una collaborazione e compartecipazione ai risultati di impresa, ma tali situazioni sono marginali rispetto all’insieme e non giustificano i sistemi distorsivi attualmente in essere nel nostro mercato del lavoro.
Il fenomeno è trasversale e riguarda diversi comparti dall’assicurativo (vedasi impiegati amministrativi posti al front office con partita Iva, giustificando tale scelta per ragioni commerciali, fino ad arrivare al mondo della sanità, con il fenomeno dei gettonisti in forte aumento).

Tale sistema crea per le imprese più spregiudicate una sorta di vantaggio economico, mentre per i lavoratori uno status di precarietà non giustificato dai maggiori, di norma esigui, vantaggi economici.
Resta palese, inoltre, che tale distorsione fa venire meno tutte quelle conquiste ottenute dalla contrattazione collettiva di categoria, creando disparità tra lavoratori e, nelle disparità, un mercato parallelo iniquo rispetto a quello ufficiale.

Non bastano, quindi, i divieti anche perché i controlli, sempre insufficienti, sono facilmente eludibili in un mercato che delinea di fatto l’inquadramento in base agli orari impiegati nel posto di lavoro o per quel lavoro specifico.

In un mondo che va rapidamente verso un lavoro al digitale, tali controlli diventerebbero ancor più difficili.

La questione deve essere posta sotto la lente del legislatore, con la previsione di nuove forme contrattuali che possano meglio inquadrare varie tipologie di lavoro subordinato, donando loro in modo progressivo maggiori tutele rispetto a quelle attuali derivanti da collaborazioni fittizie, prevedendo
– monitoraggi in base al prodotto ed alla ricorrenza del lavoro;
– l’ampliamento delle tutele nei contratti atipici, oggi ridotte a solo quattro tipologie;
– il divieto assoluto di un servizio continuativo con soggetti professionali tale da dimostrare in modo semplice e automatico la subordinarietà nel lavoro.



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