
Il ruolo della donna nella professione forense
Il cammino delle “pari opportunità” in Italia, pur avendo radici più lontane, ha avuto inizio, in modo fattivo, concreto, con la nascita della Repubblica, e dunque, intorno al 1948.
Fu allora che, in una Nazione nella quale le donne avevano appena conquistato il diritto di voto, si pensò di fondare il patto repubblicano sulla eguaglianza dei cittadini, il cui principio è consacrato nell’art. 3 Cost., che si spinge ben oltre l’uguaglianza formale. Ai principi si è cercato poi di dare attuazione nella vita della famiglia, del mondo del lavoro, nella vita pubblica, con modifica anche di tutte quelle disposizioni che ancora riflettevano la situazione di profondo divario di genere che aveva caratterizzato l’impostazione pre-repubbicana.
Nell’avvocatura si è cominciato a parlare di pari opportunità nel 1998.
Precursore è stato il COA di Bari, che, dal 1998, costituì il primo Comitato pari opportunità.
Fu, però, solo con il protocollo nazionale del 2003 tra il CNF e il Ministero delle Pari opportunità, sottoscritto nel 2006 e poi rinnovato nel 2009, che si unirono le forze per la realizzazione di un progetto comune per rimuovere tutte le discriminazioni e rafforzare l’occupazione femminile.
È trascorso tempo dalla l. n. 1176 del 1919, che sancì l’ammissione delle donne ad esercitare tutte le professioni «a pari titolo degli uomini», e oggi i dati sono sensibilmente diversi rispetto al passato. Le iscrizioni presso i COA delle donne sono pari a quelle degli uomini; talora anche di più.
Abbiamo avuto e abbiamo donne elette alla Presidenza dei COA, alla Presidenza del CNF, alla Presidenza della Cassazione.
Eppure, ancora, le donne si trovano a scontrarsi con retaggi culturali, barriere mentali e pregiudizi che non consentono di sentirsi, nonostante gli impegni profusi, nel quotidiano, al pari dei colleghi uomini.
Prendono la scena stereotipi di genere nei quali il sesso femminile è stato confinato per secoli, tant’è che ancora oggi, e no-nostante i notevoli passi avanti compiuti, è ancora difficile per la società associare il concetto di autorità alla figura femminile e quindi, per raggiungere pari obiettivi tra l’uomo e la donna, è la donna a doversi sacrificare di più e a faticare di più.
È tempo di interventi concreti che possano garantire le “pari opportunità”, formula usata per lo più come manifesto politico, ma privata del suo contenuto essenziale.
Una maggiore partecipazione nelle strutture associative rappresentative di categoria aiuterebbe la causa: la presenza attiva negli ordini e nelle associazioni professionali, non solo nei direttivi consiliari ma anche nell’organizzazione dei servizi associativi e nelle attività di rappresentanza, renderebbe più visibile l’impegno femminile nella professione, spesso condizione per l’accesso ai vertici.
Tutt’oggi è la naturale predisposizione all’accudimento familiare il maggiore ostacolo per le donne all’avanzamento professionale.
Gli impegni familiari, ancor di più nelle professioni legali dove i tempi, le modalità di lavoro e, per il libero foro, anche i guadagni sono estremamente variabili, e l’immediata conseguenza è che molto più di frequente si ricercano forme di lavoro individuali e meno associative, e comunque forme di lavoro dipendente o flessibile (es. Part-time, collaborazioni occasionali) con guadagni estremamente variabili; rinuncia a posizioni apicali e/o di responsabilità, distanza da settori dove è richiesta una elevata specializzazione ed un aggiornamento costante. Oppure, al contrario, rinuncia ad ogni legittima aspirazione familiare in nome della propria affermazione professionale.
Un problema evidente e che va immediatamente risolto in nome delle pari opportunità è la differenza di reddito tra l’uomo e la donna.
Non è un mistero, ed è un dato confermato anche dalla Cassa Forense, che gli uomini godano di un reddito più elevato delle donne, a parità di lavoro, se non a quantità di lavoro inferiore.
Si è cercato di spiegare che la differenza di reddito è dovuta spesso alla giovane età delle iscritte alla Cassa e agli ordini forensi rispetto agli uomini; si è cercato di spiegare che la differenza è dovuta a un impegno limitato a settori giuridici con maggiore redditività (es. il settore bancario, societario, finanziario) oppure che il minor reddito sia collegato al minor tempo lavorativo.
Ma tutto ciò rimarca proprio la tendenza a dare minor valore all’attività professionale svolta dalla donna, rispetto a quella svolta dall’uomo.
Allora, è chiaro che il lavoro delle donne nell’ambito della professione forense deve essere supportato, in nome delle pari opportunità, con interventi che consentano di conciliare gli impegni familiari con i tempi e le forme della professione forense.
Il processo telematico consente una migliore organizzazione della vita professionale e privata, tanto per gli uomini quanto per le donne, ma servirebbe anche, ad esempio, consentire l’estensione del legittimo impedimento alle avvocate nel foro nel periodo di astensione alla maternità, permettendo di evitare la nomina del sostituto processuale.
La realtà è che solo rimodulando gli impegni relativi alla gestione domestica, senza rinunce radicali, è possibile avviare percorsi professionali avanzati; nel settore legale, infatti, non c’è una vera parità sul lavoro, intesa come parità di opportunità lavorative, senza una parità nelle dinamiche familiari.
Sanzioni severe contro le discriminazioni sessuali sono indispensabili per garantire l’occupazione femminile, anche considerato che i rimedi posti alle discriminazioni sul posto di lavoro sono tarati su rapporti di lavoro subordinato ordinari e comunque sono ancora poco utilizzati.
La stessa esenzione dal versamento dei contributi per la Cassa forense durante la maternità fino a tre anni è una misura che aiuta le professioniste ma sicuramente non incide sulla capacità di produrre reddito.
Anche la flessibilità degli orari, se riconosciuta solo alle professioniste e individuata come strumento per agevolarne l’impiego, ne rinforza il ruolo domestico e rimarca ancora di più le differenze con i colleghi, che quindi anche solo per poter disporre di maggior tempo per lavorare, avanzano nella carriera.
I bonus sociali (es. l’assegno unico universale, i congedi parentali) sono strumenti utili e tuttavia non agevolano l’occupazione femminile, così come le quote rosa (già nel nome sminuenti) creano sì possibilità di inserimento ma dequotano il merito e accentuano la percezione sociale della donna come soggetto debole.
Le professioni femminili si incentivano anche promuovendo l’impegno familiare maschile (es. potenziare il lavoro agile negli uffici legali privati e pubblici, con percentuali bilanciate tra colleghi e colleghe secondo turnazioni ad hoc) o ancora ampliando gli ingressi ritardati e le uscite anticipate da lavoro per motivi scolastici riservate ai padri lavoratori, aumentando per gli stessi la durata del congedo parentale, stanziando fondi per sostenere la paternità per i liberi professionisti anche con detrazioni e fiscalità agevolata. Insomma, la condivisione degli impegni familiari crea opportunità reali di crescita lavorativa anche per le donne libere professioniste.
Si potrebbero, poi, attuare politiche di maggiori agevolazioni fiscali o comunque di misure incisive di sostegno alla professione (bonus pc, agevolazioni su affitti di locali da adibire a studi) e perché no anche al consumo (agevolazioni per i mezzi pubblici a titolo esemplificativo) per le professioniste autonome che abbiano redditi bassi, anche indipendentemente dal mantenimento di un nucleo familiare.
Occorre di fatto eliminare la diseguaglianza retributiva, incrementare la disponibilità economica delle professioniste così facendo si aumentare l’autonomia finanziaria e la competitività.
Interventi, pur piccoli ma mirati, possono contribuire a riequilibrare i ruoli familiari ed economici tra i sessi e ad aumentare la consapevolezza sociale delle donne.
Stop war.