INTERDITTIVA ANTIMAFIA

INTERDITTIVA ANTIMAFIA

Profili di legittimità

L’interdittiva antimafia è il provvedimento amministrativo con il quale il Prefetto, in presenza di determinati presupposti previsti dall’art. 84, d.lg. n. 159 del 2011 (c.d. Codice Antimafia), esclude che un imprenditore, pur dotato di mezzi economici e adeguata organizzazione, possa essere titolare di rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione o di altri titoli abilitativi, individuati dalla legge, al fine di contrastare tentativi di infiltrazione mafiosa nei rapporti economici tra Stato e privati.

L’istituto è particolarmente attuale.
In epoca emergenziale, si è registrato un aumento esponenziale del numero di informative antimafia, che nel 2020 sono state 2.130, con un incremento percentuale del 38% rispetto al 2019. Dati ancora più allarmanti se si considera che tali provvedimenti hanno colpito anche aziende interessate ai finanziamenti europei offerti dal Recovery Fund, operanti nei settori economici maggiormente diffusi, come quello dell’edilizia, della distribuzione alimentare, del turismo e della ristorazione.

Tuttavia, pur svolgendo una funzione di tutela preventiva del pericolo criminale, la regola dell’interdittiva antimafia ha destato molte perplessità, per la potenziale forte incidenza sull’attività economica dell’impresa, che non può né stipulare contratti pubblici né ottenere autorizzazioni o erogazioni, senza possibilità di esercizio del diritto di difesa da parte della stessa, in termini di contraddittorio anticipato. L’unico strumento a disposizione è il ricorso al Tar, ma il sindacato del Giudice amministrativo è limitato alla verifica dei presupposti formali e non sostanziali del provvedimento, come pure sarebbe necessario, essendo in presenza di un tentativo di infiltrazione mafiosa.

Per di più l’istituto, pur avendo natura cautelare e preventiva, ha spesso una capacità sanzionatoria superiore a un provvedimento di condanna penale, in quanto non ci sono né riferimenti normativi né giurisprudenziali che consentano di verificare quando il pericolo di infiltrazione mafiosa possa dirsi cessato. Con l’inaccettabile conseguenza che un provvedimento temporaneo finisce per avere, nei fatti, effetti definitivi.

Non sono mancati dubbi di legittimità costituzionale.

Il Tribunale di Palermo (ord. n. 131/2018), prima, e il Tar Calabria (ord. n. 732/2020), poi, hanno sottolineato la questione con riferimento agli artt. 3, comma 2, 4, 24 e 41 cost., denunciando il grave pregiudizio al diritto al lavoro, della libertà di iniziativa economica privata e del diritto di difesa dell’imprenditore colpito, che non può esercitare alcuna attività economica sia pubblica che privata, con effetti ancora più preoccupanti quando essa è l’unico mezzo di sostentamento per l’interessato e la famiglia. In virtù della preminenza dell’interesse pubblico alla prevenzione del pericolo criminale, la Corte costituzionale reputa infondata la questione (Corte cost. n. 57 del 2020).

È certo, però, che la disciplina dell’istituto meriti un ripensamento e una diversa graduazione in virtù del tasso di infiltrazione criminale nell’impresa, che non può essere qualificata come mafiosa in virtù della logica del sospetto o in virtù di massime di esperienza, fondate su dati sociali o culturali. Anche per evitarne la decozione, che finisce per colpire l’occupazione e impoverire il territorio, con la paradossale conseguenza di favorire l’aggressione criminale.

È fondamentale che il rapporto di fiducia tra Stato e cittadino non sia minato dalla scarsa trasparenza dei modelli normativi e da previsioni costruite più su un deleterio giustizialismo che su ragioni di giustizia sostanziale, ma sia piuttosto fondato sul proposito di definizione di stabili equilibri economici e sociali.



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